La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 (legge Fornero) e del D.Lgs. n. 23 del 2015 (c.d. Jobs Act), mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Il principio era già stato affermato di recente dal giudice di legittimità (Cass. civ. Sez. lavoro, 06/09/2022, n. 26246).

Nel nostro ordinamento non esiste una specifica disciplina della “reperibilità”, né esiste, tanto a livello nazionale quanto comunitario, alcuna normativa che stabilisca se, e a quali condizioni, il periodo di tempo in cui il lavoratore rimane disponibile e contattabile dal datore di lavoro al di fuori del proprio turno di lavoro, possa essere considerato “orario di lavoro”.

Il fenomeno riguarda, invero, tipicamente alcune particolari figure professionali quali, esercenti professioni sanitarie, tecnici incaricati della manutenzione di impianti a funzionamento necessariamente continuo ed altre figure chiamate ad intervenire in situazioni di emergenza (ad esempio vigili del fuoco).

In ragione della sua ampia diffusione in concreto, la fattispecie è stata tuttavia oggetto di ripetuto esame da parte della Corte di Cassazione la quale, in linea con l’orientamento espresso in materia anche dalla Corte di Giustizia Europea, ha nel tempo stabilito alcuni principi interpretativi a cui è possibile ispirarsi nella valutazione dei singoli casi concreti.

Più in particolare, nelle proprie più recenti decisioni, la Corte di Cassazione, in linea con quanto disposto dal Dlgs. n. 66 del 2003, ha affermato che costituisce orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore: (1) sia “al lavoro”, ovvero, nel luogo di lavoro determinato dal datore di lavoro (non necessariamente coincidente con la sede di lavoro); (2) sia “a disposizione del datore di lavoro”, ovvero, limitato nella propria possibilità di gestire il proprio tempo libero, ancorché non concretamente impegnato nello svolgimento delle proprie mansioni lavorative.

Qualora al contrario il lavoratore si limiti ad obbligarsi ad intervenire entro un periodo di tempo determinato dal datore di lavoro, tale periodo costituisce orario di lavoro soltanto se l’obbligo in questione comprima in maniera significativa e oggettiva la libertà del lavoratore di riposarsi e dedicarsi liberamente ad attività extra lavorative.

In linea con il proprio precedente orientamento, la Corte di Cassazione – con la sentenza Sez. Lavoro, 29.9.2022, n. 28398, ha recentemente ribadito che Il lavoratore può registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda.

Non serve, in particolare, il consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati – come l’audio acquisito da un ignaro interlocutore – serve a precostituirsi un mezzo di prova, magari contro il datore: ciò purché l’utilizzo dell’ audio non vada oltre le finalità della tesi difensiva e, dunque, le necessità del legittimo esercizio di un diritto.

Secondo la Corte, in particolare, il diritto alla difesa prevale su quello alla privacy, dovendosi estendere tale diritto di difesa a tutte le attività dirette ad acquisire elementi di prova utilizzabili in giudizio, anche prima che la controversia sia instaurata in modo formale.

La Suprema Corte, con la sentenza del 29 settembre 2022 n. 28327, ha stabilito che la preesistente menomazione del danneggiato, se “coesistente”, è di norma irrilevante rispetto ai postumi dell’illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (cioè, stabilendo cosa sarebbe accaduto se l’illecito non si fosse verificato), senza che di essa si debba tenere conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno, mentre, se “concorrente”, può costituire concausa dell’evento di danno, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica, in quanto gli effetti invalidanti sono più gravi se associati ad altra menomazione, con la conseguenza che essa va considerata ai fini della sola liquidazione del pregiudizio e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità, da determinarsi, comunque, in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni.