Il Tribunale di Cremona, con la sentenza n. 502 del 18 ottobre 2022, ha sancito che nella fideiussione omnibus, quand’anche la clausola di rinuncia al termine ex art. 1957 c.c. sia nulla ai sensi dell’art. 2 comma 2, lett. a), Legge n. 287/1990 in quanto manifestazione di un accordo anticoncorrenziale, se il fideiussore si è impegnato a pagare “a semplice richiesta scritta” quanto dovuto dal soggetto garantito, l’onere del creditore, previsto dall’art. 1957 c.c., di avanzare istanza entro il termine di sei mesi dalla scadenza del credito deve ritenersi soddisfatto con la semplice richiesta scritta di pagamento rivolta al debitore principale o al fideiussore senza necessità di proporre entro lo stesso termine azione giudiziale.
Questo perché, secondo il Tribunale di Cremona, la clausola con cui il fideiussore si impegna a soddisfare il creditore “a semplice richiesta” o entro un tempo predeterminato, costituisce deroga pattizia alla forma che il creditore, ai sensi dell’art. 1957 c.c., deve osservare nel proporre le sue richieste al fideiussore nel termine previsto dall’articolo in questione, nel senso che l’osservanza dell’onere in questione può ritenersi soddisfatta dalla richiesta di pagamento formulata dal creditore al fideiussore a prescindere dalla proposizione di un’azione giudiziaria.
In estrema sintesi il Tribunale di Cremona ha affermato che quando la fideiussione contiene una clausola con la quale il fideiussore si impegna a soddisfare il creditore “a semplice richiesta scritta“, per evitare la decadenza dalla garanzia prevista dall’art. 1957 c.c. è sufficiente che, entro sei mesi dalla scadenza dell’obbligazione principale, il creditore formuli una richiesta scritta al debitore principale o al fideiussore, non essendo necessario che entro quel termine venga promossa anche un’azione giudiziaria.
Dello stesso avviso la Corte di Appello di Milano la quale, in occasione di una recente pronuncia (n. 220 del 24 gennaio 2023), ha chiarito che qualora, per accordo tra le parti, il garante debba adempiere a seguito della “semplice richiesta” del creditore, la domanda di pagamento inviata in via stragiudiziale può, e deve, essere considerata una valida istanza ai sensi e per gli effetti di cui all’art. 1957 c.c.. Diversamente opinando, secondo la Corte di Appello meneghina, la garanzia perderebbe il suo significato di garanzia a prima richiesta.
In altri termini la fideiussione “a prima richiesta” comporta che il garante sia tenuto al pagamento dell’obbligazione quando questo gli viene intimato dal creditore, indipendentemente dall’esercizio di un’azione giudiziale.
Da quel momento, infatti, il fideiussore è obbligato ad eseguire il pagamento richiesto, secondo il meccanismo proprio del solve et repete, ed è reso conscio del mancato adempimento da parte del debitore principale.
La raccomandata inviata costituisce richiesta scritta di pagamento stragiudiziale idonea ad evitare la decadenza ai sensi dell’art. 1957 c.c..
Secondo la Corte di Appello di Milano è irrilevante, quindi, il momento in cui il creditore ha proposto domanda giudiziale dovendosi ritenere rispettato il termine di cui all’art. 1957 c.c. già con la diffida stragiudiziale.
Nell’ambito dei rapporti condominiali, non è insolito che si creino situazioni che possono configurare delle immissioni/molestie che superano la normale tollerabilità.
Ad esempio, spesso accade che un condomino si prenda cura di animali anche randagi nella sua proprietà esclusiva.
Tuttavia, rifocillare cani o gatti con ciotole di cibo può costituire molestia se gli animali non solo vagano nelle parti comuni ma s’introducono negli appartamenti e relative pertinenze degli altri condomini limitandone il godimento.
Pertanto, sempre che non sia proibito dal regolamento condominiale, dare da mangiare ad animali anche se randagi non è vietato, ma è necessario adottare tutte le precauzioni idonee ad impedire che la presenza degli animali possa recare molestia al resto del condominio.
Stessa cosa può valere allorquando un condomino possieda animali domestici che, venendo lasciati incustoditi per diverse ore, abbaiano incessantemente.
La Corte di Cassazione, segnatamente, ha recentemente confermato una sentenza della Corte di Appello con cui è stato disposto il risarcimento del vicino, disturbato nelle ore di riposo a causa di “cupi ululati e continui e fastidiosi guaiti specie nelle ore notturne emessi dai cani dei vicini collocati sul terrazzo dell’abitazione e sul terreno comune del fabbricato” (Cass. civ., sez. III, 27/07/2022, n. 23408).
In conclusione, qualora il singolo condominio ponga in essere le condotte di cui sopra, quest’ultimo sarà tenuto ad adottare tutte le necessarie precauzioni volte ad evitare disagi ai vicini. In difetto, tali disagi potrebbero sfociare in richieste di risarcimento dei danni da parte degli altri condomini.
Ed infatti, il giudice può liquidare il danno causato dalle immissioni/molestie in via equitativa, sulla base della prova fornita dal danneggiato anche con presunzioni, sulla base di nozioni di comune esperienza, senza che sia necessaria la dimostrazione di un mutamento delle abitudini di vita, liquidando a favore del danneggiato anche il danno non patrimoniale, consistente nella lesione del diritto al normale svolgimento della vita famigliare all’interno della sua abitazione (Cass. civ., Sez. Unite, 01/02/2017, n. 2611).
La rinuncia all’eredità consiste in un atto giuridico unilaterale, per mezzo del quale il chiamato all’eredità dismette il suo diritto di accettarla. Il compimento di tale atto determina la perdita del diritto all’eredità ed il rinunciante è considerato come se non fosse stato mai chiamato.
Ai sensi dell’art. 519, cod. civ., detta rinuncia deve necessariamente essere compiuta in forma solenne, con dichiarazione ricevuta da notaio o da cancelliere del Tribunale del circondario nel quale si è aperta la successione ed iscritta nel registro delle successioni.
È stato anche precisato dalla giurisprudenza di legittimità che, ai sensi dell’art. 519, cod. civ., la dichiarazione di rinunzia all’eredità non possa essere sostituita neanche da una scrittura privata autenticata. La forma suddetta è prevista a pena di nullità, in quanto l’indicazione dell’art. 519 cod. civ., rientra tra le previsioni legali di forma “ad substantiam”, di cui all’art. 1350 cod. civ., n. 13, (Cass. Sez. II, Sent. n. 4274 del 2013).
La Suprema Corte, prendendo le mosse dalle considerazioni che precedono, nell’ordinanza n. 37927 del 28 dicembre 2022, ha, in proposito, recentemente stabilito il principio secondo il quale, nel sistema delineato dagli artt. 519 e 525, cod. civ., in tema di rinunzia all’eredità – la quale determina la perdita del diritto all’eredità ove ne sopraggiunga l’acquisto da parte degli altri chiamati – l’atto di rinunzia deve essere rivestito di forma solenne, con la conseguenza che una revoca tacita della rinunzia deve essere considerata inammissibile.
L’1 marzo 2023 entrerà in vigore una prima significativa parte delle nuove regole previste dalla riforma Cartabia riguardanti i procedimenti relativi allo stato delle persone, ai minori e alla famiglia.
Fra le novità di prossima imminente applicazione, in particolare vi sono quelle riguardanti i procedimenti di separazione e divorzio che la riforma Cartabia ha, sostanzialmente, ridisegnato modificandone sia la fase introduttiva, sia la fase istruttoria, sia quella decisoria.
Fra le più significative novità della riforma viene segnalato, in particolare, con riferimento ai procedimenti in cui siano coinvolti figli minori:
• l’obbligo dei genitori di produrre, già al momento del deposito dell’atto introduttivo del giudizio, la documentazione utile al fine di determinare la capacità reddituale di ciascuno di essi (dichiarazione dei redditi, estratti conto bancari e finanziari ed ogni altro documento che attesti la titolarità di diritti mobiliari e immobiliari, ovvero, di quote sociali con riferimento agli ultimi tre anni);
• l’obbligo di allegare al ricorso introduttivo un piano genitoriale che indichi gli impegni e le attività quotidiane degli stessi relativamente alla scuola, al percorso educativo, alle attività extrascolastiche, alle frequentazioni abituali ed alle vacanze normalmente godute.
Con il nuovo rito introdotto dalla riforma Cartabia si potrà, inoltre, proporre contestualmente la domanda di separazione giudiziale e di divorzio contenzioso. La domanda di divorzio sarà però effettivamente procedibile solamente decorso il termine a tal fine previsto dalla legge (12 mesi dall’udienza di comparizione delle parti).
Un’altra importante novità riguarda i figli minori: il minore che ha compiuto gli anni dodici e anche di età inferiore ove capace di discernimento è ascoltato dal giudice nei procedimenti nei quali devono essere adottati provvedimenti che lo riguardano. Le opinioni del minore devono, inoltre, essere tenute in considerazione ai fini della decisione delle medesime questioni.
Con la c.d. Riforma Cartabia sono state introdotte modifiche significative in materia di notificazioni.
Di particolare importanza sono le disposizioni relative all’introduzione dell’obbligo della notifica a mezzo PEC qualora il destinatario sia un soggetto obbligato a munirsi di un indirizzo PEC risultante da pubblici elenchi ovvero abbia eletto domicilio digitale a norma del d.lgs. n. 82/2005.
La nuova disciplina è contenuta nella l. n. 53 del 1994, ss. mm. ii., salvo poi apportare modifiche di coordinamento alle norme del codice di procedura civile.
In particolare, è stato introdotto il comma 1 bis all’art. 3 bis della l. n. 53 del 1994 secondo cui la notificazione alle pubbliche amministrazioni è validamente effettuata presso l’indirizzo istituzionale individuato ai sensi dell’art. 16 ter del d.l. n. 179/2012 convertito, con modificazioni, dalla l. n. 221/2012.
È stato inoltre modificato il comma 3 del medesimo articolo, facendo salva l’applicazione dell’art. 147, commi 2 e 3, c.p.c., in forza dei quali le notificazioni a mezzo PEC o servizio elettronico di recapito certificato qualificato possono essere eseguite senza limiti orari e si intendono perfezionate, per il notificante, nel momento in cui è generata la ricevuta di accettazione e, per il destinatario, nel momento in cui è generata la ricevuta di avvenuta consegna. Se quest’ultima è generata tra le ore 21 e le ore 7 del mattino del giorno successivo, la notificazione si intende perfezionata per il destinatario alle ore 7.
E’ stato inserito un nuovo art. 3 ter che prevede che l’avvocato debba procedere alla notificazione degli atti giudiziali in materia civile e degli atti stragiudiziali a mezzo PEC o servizio elettronico di recapito certificato sia quando il destinatario è soggetto obbligato a munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata, sia quando, pur non essendo obbligato, egli abbia esercitato la facoltà di eleggere domicilio digitale. Se la notificazione a mezzo PEC nei confronti delle imprese o professionisti iscritti nell’indice INIPEC è impossibile o non ha esito positivo, per causa imputabile al destinatario, l’avvocato deve eseguire la notificazione mediante inserimento nell’area web riservata prevista dal codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza ex art. 359 e la notificazione si dà per eseguita nel decimo giorno successivo a quello in cui è compiuto l’inserimento. Se, invece, la notificazione a mezzo PEC nei confronti di persone fisiche o altri enti di diritto privato non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese è impossibile per causa imputabile al destinatario, la notificazione potrà eseguirsi con le modalità ordinarie.
In tutti i casi in cui le notificazioni a mezzo PEC non sono possibili o non hanno esito positivo, per cause imputabili al destinatario la notificazione si esegue con modalità ordinarie.
È stato, infine, modificato l’art. 4 della l. n. 53 del 1994 prevedendo la facoltà di eseguire la notificazione con consegna di copia dell’atto nel domicilio del destinatario, soltanto laddove non sussista l’obbligo di procedere via PEC o mediante inserimento nell’area web prevista dall’articolo 359 del codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza.
Per quanto riguarda il codice di procedura civile, come sopra rilevato, il legislatore delegato ha apportato le necessarie modifiche di coordinamento.
In particolare, è stato modificato l’art. 149 bis c.p.c., disponendo la notifica via PEC anche per gli atti propri dell’ufficiale giudiziario quando il destinatario è un soggetto per il quale la legge prevede l’obbligo di munirsi di un indirizzo di posta elettronica certificata o servizio elettronico di recapito certificato oppure quando il destinatario ha eletto domicilio digitale.
Con una recente pronuncia la Corte di Cassazione (sentenza n. 28398/2022) ha fornito una risposta a una questione di grande attualità: un soggetto può registrare di nascosto le conversazioni allo scopo di tutelare un proprio diritto in giudizio.
La vicenda processuale nasce da una pronuncia della Corte d’appello di Salerno che non ha ritenuto sussistente il carattere ritorsivo di un licenziamento stante la totale assenza di elementi probatori a sostegno di tale affermazione, in quanto le registrazioni delle conversazioni tra colleghi raccolte dal lavoratore erano da considerarsi abusive e illegittime e pertanto non idonee a costituire fonte di prova.
La Cassazione ha censurato la sentenza di secondo grado, evidenziando che la stessa non ha in alcun modo indagato sulla sussistenza dei requisiti atti a far ritenere legittime, a fini di prova, le registrazioni di conversazioni tra presenti.
Inoltre, ha precisato che i giudici della Corte d’Appello non hanno sottoposto a bilanciamento i diritti coinvolti, ovvero il diritto alla difesa e il diritto alla riservatezza.
Pertanto, la Corte ha affermato che la registrazione di una conversazione tra presenti, in assenza di consenso e allo scopo di precostituirsi una prova giudiziale, è legittima stante la prevalenza, nel bilanciamento dei diritti, del diritto alla difesa sul diritto alla riservatezza non dovendo ritenersi il diritto alla difesa circoscritto alla sola sede processuale, ma estendendosi ad ogni fatto ed atto teso ad acquisire prove anche precostituite utilizzabili in giudizio.
La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 31844 del 27 ottobre 2022, ha statuito circa la possibilità di sottoporre a pignoramento il credito al pagamento del prezzo del promittente venditore, riveniente da un contratto preliminare, in quanto identificato come credito futuro riconducibile ad un rapporto esistente.
Il caso riguardava un pignoramento presso terzi avviato dal procedente nei confronti del proprio debitore che aveva stipulato un contratto preliminare con due società per il trasferimento delle quote di partecipazione di cui era titolare dietro pagamento di un’ingente somma di denaro.
Al preliminare, rimasto inadempiuto, seguiva sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c., non passata in giudicato.
Nel frattempo un altro creditore proponeva pignoramento presso terzi al fine di sottoporre ad esecuzione il credito vantato dal promittente venditore ma i terzi pignorati rendevano dichiarazione negativa ex art. 547 cpc ed il procedente era costretto ad instaurare giudizio di accertamento dell’obbligo del terzo, che si concludeva con il rigetto della domanda.
Il Tribunale riteneva impignorabile il credito in quanto derivante da una sentenza costitutiva non ancora definitiva. La decisione del giudice di prime cure veniva confermata dalla Corte di Appello cui il creditore si era, nel frattempo, rivolto.
Il creditore si rivolgeva, infine, alla Corte di Cassazione la quale riteneva errati e del tutto non condivisibili i motivi addotti dalla Corte d’Appello sancendo che l’esecuzione mediante espropriazione presso terzi può riguardare anche crediti futuri, non esigibili, condizionati e finanche eventuali, con il solo limite della loro riconducibilità ad un rapporto giuridico identificato e già esistente.
Pertanto, anche il credito al pagamento del prezzo del promittente venditore, riveniente da un contratto preliminare, è suscettibile di pignoramento ex art. 543 c.p.c., giacché – per quanto eventuale, dipendendo la sua effettiva maturazione dalla realizzazione del programma negoziale, sia essa spontanea o coattiva, ex art. 2932 c.c. – è specificamente collegato ad un rapporto esistente, e possiede quindi capacità satisfattiva futura, concretamente prospettabile nel momento della assegnazione.
Il carattere eventuale del credito del promittente venditore quindi non esclude la possibilità della sua espropriazione, il che comporta la possibilità di positivo accertamento di esso nel giudizio di cui all’art. 548 c.p.c. e di sua assegnazione in favore del creditore procedente.
La Suprema Corte, con la sentenza del 29 settembre 2022 n. 28327, ha stabilito che la preesistente menomazione del danneggiato, se “coesistente”, è di norma irrilevante rispetto ai postumi dell’illecito apprezzati secondo un criterio controfattuale (cioè, stabilendo cosa sarebbe accaduto se l’illecito non si fosse verificato), senza che di essa si debba tenere conto nella determinazione del grado di invalidità permanente e nella liquidazione del danno, mentre, se “concorrente”, può costituire concausa dell’evento di danno, assumendo rilievo sul piano della causalità giuridica, in quanto gli effetti invalidanti sono più gravi se associati ad altra menomazione, con la conseguenza che essa va considerata ai fini della sola liquidazione del pregiudizio e non anche della determinazione del grado percentuale di invalidità, da determinarsi, comunque, in base alla complessiva invalidità riscontrata in concreto, senza innalzamenti o riduzioni.
Secondo la Cassazione, il debitore può chiedere il risarcimento del danno provocato dall’iscrizione di un’ipoteca sproporzionata ossia eccessiva rispetto al debito garantito.
Nel caso di specie, una banca aveva iscritto un’ipoteca su beni di valore di circa 30 milioni di Euro a cautela di un credito di appena 100 mila Euro.
Il debitore, adducendo che la banca si era resa autrice di un fatto illecito (l’iscrizione eccessiva), aveva richiesto il risarcimento del danno il quale, a suo giudizio, consisteva nel fatto che l’iscrizione aveva impedito la concessione di un finanziamento, e aveva degradato il merito creditizio del debitore e provocato «a cascata» l’iscrizione di ipoteche da parte di altre banche.
Con l’ordinanza del 13 dicembre 2021, n. 39441, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e cassato con rinvio per nuovo esame la decisione della Corte d’Appello di Firenze.
La portata innovativa dell’ordinanza in questione sta nel fatto che tale pronuncia conferisce un sostanziale cambio di rotta all’orientamento consolidato che negava la responsabilità della banca per iscrizione eccessiva e di fatto negava ogni tutela a fronte di tale abuso.
Così decidendo la Cassazione ha riconosciuto oltre alla possibilità di chiedere la riduzione dell’iscrizione ipotecaria sproporzionata rispetto al credito da garantire anche il risarcimento del danno.
La portata della pronuncia è, quindi, di particolare importanza, poiché apre nuove prospettive non solo rispetto alla tutela del patrimonio illegittimamente aggredito dalla banca, ma anche su una questione per il momento nuova, e cioè sulla responsabilità della banca e sui danni risarcibili provocati da un contegno incauto.
Resta comunque da capire quale sia il parametro cui il creditore debba riferirsi per non incorrere nel caso di una iscrizione sproporzionata. Da questo punto di vista potrebbe tornare utile il principio per il quale il debitore ha diritto alla riduzione dell’ipoteca se il suo valore eccede di un terzo il valore dei crediti a cautela dei quali l’ipoteca viene iscritta (art. 2875 c.c.).
Quindi, in teoria, seguendo il parametro del terzo, non si dovrebbe incorrere nel rischio di sentirsi chiamati in responsabilità per iscrizione eccessiva.
Suscita grande interesse la sentenza del Giudice di Pace di Monza, n. 407/2022, con oggetto una lite tra un utente e la compagnia telefonica che aveva fornito un servizio inferiore alle previsioni contrattuali.
L’accordo stipulato, infatti, prevedeva la fornitura di un servizio di connessione internet su fibra, con esplicita previsione di una velocità non inferiore a 50 mbts e massima di 100 mbts.
Tuttavia, dopo la stipula del contratto, la Compagnia Telefonica comunicava al cliente che, per “non meglio specificate ragioni tecniche”, risultava impossibile raggiungere la velocità minima garantita, proponendo, quindi, una riduzione del canone, che l’utente non accettava.
Ad avviso del Giudice, nel momento in cui formula l’offerta, infatti, la Compagnia è tenuta a verificare preventivamente se la velocità proposta si poteva realmente assicurare, tenuto conto di tutte le variabili.
Colpevolmente, solo a posteriori la Compagnia aveva svolto gli accertamenti del caso e verificato che le concrete condizioni di erogazione del servizio non avrebbero permesso di raggiungere le velocità garantite da contratto.
Nella fattispecie, le prestazioni garantite dal contratto non erano realistiche ma, secondo il Giudice, la situazione concreta va verificata prima di concludere il contratto, altrimenti, come nel caso in oggetto, si deve parlare di inadempimento agli obblighi contrattuali.
La Compagnia è stata condannata al risarcimento del danno cagionato all’utente per circa 4.000 euro, calcolato sulla base della delibera AGCOM 347/18, che prevede un indennizzo di 3 euro al giorno per ogni giorno di malfunzionamento oltre euro 1.000 per lite temeraria, per aver disatteso l’invito dell’utente a risolvere in via bonaria la questione davanti al Corecom, causando in questo modo un aumento di costi che potevano essere evitati.