Con la recente ordinanza n. 20787del 25 luglio 2024, la Corte di Cassazione ha confermato il proprio precedente orientamento secondo il quale i tempi di vestizione e svestizione (il c.d. “tempo tuta”), e quelli per il passaggio di consegne, quando sono obbligatori, devono essere considerati parte integrante dell’orario di lavoro, dovendo essere pertanto remunerati, eventualmente, anche a forfait.

La pronuncia ha riguardato una fattispecie relativa a lavoro svolto in ambito sanitario.

Nel motivare la propria decisione, la Corte ha ricordato di aver già statuito, con riguardo a fattispecie relative all’ambito infermieristico, che i c.d. tempi tuta danno diritto alla retribuzione, trattandosi di obblighi imposti dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti sia la gestione del servizio pubblico, sia la stessa incolumità del personale addetto; non diversamente, il cambio di consegne nel passaggio di turno, in quanto connesso, per le peculiarità del servizio sanitario, all’esigenza della presa in carico del paziente e ad assicurare a quest’ultimo la continuità terapeutica, è riferibile ai tempi di una diligente effettiva prestazione di lavoro, sicche´ va considerato, di per sé stesso, meritevole di ricompensa economica.

La Corte ha, inoltre, aggiunto che, pur dovendosi considerare i tempi di lavoro di cui si discute come due autonomi momenti della prestazione lavorativa, «non può considerarsi in sé illegittima la loro regolazione unitaria in un unico tempo a forfait che li comprenda entrambi, anche perché si tratta di tempi tra loro contigui, reciprocamente interferenti e misurabili solo in via di approssimazione».

Ciò, dovendosi anche evitare «il rischio che, attraverso segmentazioni logiche si finiscano per moltiplicare i tempi di lavoro senza reale coerenza con la realtà fattuale».

Con una recente pronuncia di legittimità la Corte di Cassazione ha chiarito come risulti assolto l’obbligo di repêchage nella fattispecie in cui all’atto di licenziamento per g.m.o. fossero esistenti nell’organico aziendale mansioni inferiori, anche a termine, ed il datore non abbia effettuato alcuna offerta di demansionamento al lavoratore né comunque allegato e provato in giudizio che il lavoratore non rivestisse le competenze professionali richieste per l’espletamento delle stesse mansioni.
(Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 10/07/2024, n. 18904)

Con l’ordinanza n. 14944 in data 28 maggio 2024, la prima sezione civile della Corte di Cassazione è tornata ad analizzare la fattispecie dello “storno di dipendenti e collaboratori”, al fine di stabilire in presenza di quali parametri la stessa possa ritenersi compresa entro i limiti della libera circolazione del lavoro e del legittimo esercizio della libertà di iniziativa economica, ovvero, al contrario, rappresenti un’ipotesi di concorrenza sleale a danno di altro imprenditore concorrente, come tale sanzionabile civilmente ai sensi dell’art. 2598, n. 3, c.c. (“Ferme le disposizioni che concernono la tutela dei segni distintivi e dei diritti di brevetto, compie atti di concorrenza sleale chiunque: …omissis…3) si vale direttamente o indirettamente di ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale e idoneo a danneggiare l’altrui azienda”).
Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, in particolare, ai fini della configurabilità di atti di concorrenza sleale commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori è necessario che l’attività distrattiva delle risorse di personale sia stata posta in essere con modalità tali da non potersi giustificare, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva dell’impresa concorrente.
Per essere sanzionabile come atto di concorrenza sleale, l’imprenditore che pone in essere lo storno deve, quindi, aver agito con il proposito di “procurare un danno eccedente il normale pregiudizio che ad ogni imprenditore può derivare dalla perdita dei dipendenti o collaboratori in conseguenza della loro scelta di lavorare presso altra impresa”.
Come ulteriormente precisato nella sentenza in esame, infatti “la mera assunzione di personale proveniente da un’impresa concorrente non può essere considerata di per sé illecita”.

Con un’interessante sentenza di merito il Tribunale di Frosinone ha ritenuto legittimo un licenziamento per giusta causa comminato con riferimento ad una situazione che, pur non concretizzandosi in inadempimenti del lavoratore, ha inciso in maniera tale sul rapporto fiduciario proprio del rapporto di lavoro, da non consentire la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto medesimo.
Nel caso di specie, in particolare, il giudice adito ha ritenuto legittimo il licenziamento per giusta causa irrogato ad una lavoratrice, addetta ad un reparto di un supermercato, ritenuta responsabile all’esito della compiuta istruttoria, di aver acquistato al termine del suo turno di lavoro, senza alcuna autorizzazione datoriale, alcuni prodotti offerti in vendita inserendo, manualmente un prezzo scontato notevolmente inferiore rispetto a quello applicato alla generalità della clientela.
(Trib. di Frosinone, Sez. L, Sent. 10-04-2024, n. 677).

Con la recente ordinanza n. 10679 del 19 aprile 2024 la Corte di Cassazione, è tornata ad affrontare il tema della validità del patto di non concorrenza, così come disciplinata dall’art. 2125 cod. civ. (“Il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo se non risulta da atto scritto, se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e se il vincolo non è contenuto entro determinati limiti di oggetto, di tempo e di luogo).

Al riguardo la Corte di Cassazione ha chiarito che ai fini della validità del patto di non concorrenza occorre che il corrispettivo concordato a favore del lavoratore sia precisamente determinato o almeno determinabile in relazione al contenuto del contratto. Inoltre, alla luce del chiaro dettato dell’art. 2125 c.c., l’indeterminatezza del corrispettivo, così come quella dei limiti di luogo, di oggetto e di tempo del vincolo, determina la nullità dell’intero patto – e non, dunque, della singola clausola indeterminata – a prescindere da ogni valutazione di essenzialità in concreto della stessa clausola.

Secondo quanto affermato nella sentenza in commento, infatti, “nell’art. 2125 c.c. il legislatore individua precise cause di nullità del patto di non concorrenza, fra le quali la mancata pattuizione di un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro e/o la mancata individuazione di “limiti di luogo”, ossia di un preciso ambito territoriale dell’obbligo di non facere assunto dal dipendente. Trattasi di una disciplina speciale, che pertanto esclude quella generale della nullità parziale ex art. 1419 c.c., atteso che il legislatore ha compiuto “a monte” la sua valutazione di essenzialità di quelle clausole sul piano funzionale dello specifico patto”.

 

La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che il datore di lavoro, su cui a norma dell’art. 5 della legge n. 604 del 1966 grava l’onere della prova della condotta che ha determinato l’irrogazione della sanzione disciplinare, può limitarsi, nel caso in cui l’addebito sia costituito dall’assenza ingiustificata del lavoratore, a provare il fatto nella sua oggettività.
Sul lavoratore graverà, quindi, l’onere di provare elementi che possano giustificarlo.
Cassazione Civile, Sezione Lavoro, ordinanza 21.03.2024, n. 7681

È configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento oggettivo, rappresentato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo, rappresentato dall’intento persecutorio unificante tutti i comportamenti lesivi posti in essere nei confronti della vittima.
Ciò, a prescindere dalla illegittimità specifica di ciascun comportamento, poiché la concreta connotazione intenzionale delle condotte lesive nei confronti del lavoratore colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime.
In mancanza di accertamento positivo della volontà persecutoria unificante i comportamenti lesivi, al contrario, deve senz’altro escludersi che sussista una fattispecie di mobbing .
Ciò tuttavia non significa che il datore di lavoro sia senz’altro esente da responsabilità ex art. 2087 cod. civ.
Ed infatti come ha recentemente precisato la Corte di Cassazione con l’Ordinanza, Cass. Sez. Lav., 12 febbraio 2024, n. 3791: “In caso di accertata insussistenza del mobbing bisogna comunque accertare se sussista un’ipotesi di responsabilità del datore di lavoro per non avere adottato tutte le misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore”.
Qualora, come nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, nell’ordinanza in commento, siano stati posti in essere nell’ambiente di lavoro una pluralità di comportamenti (anche se tra loro non collegati da uno stesso intento persecutorio) che in concreto abbiano minato la salute psichica del lavoratore, il datore di lavoro ne dovrà, quindi, comunque rispondere ex art. 2087 cod. civ. per non avere adottato tutte le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, erano possibili e necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

La Cassazione ha recentemente confermato la legittimità del licenziamento per giusta causa di un dipendente di un istituto bancario che in più occasioni, malgrado fosse già stato diffidato, aveva tenuto un atteggiamento irrispettoso nei confronti di alcune sue colleghe, destinatarie e vittime di ripetuti approcci ed inviti a sfondo sessuale.
In particolare, la Cassazione, disattendendo i motivi proposti dal ricorrente (che aveva asserito essersi consumato il potere disciplinare attraverso la diffida allo stessa da parte del datore di lavoro), ha precisato che la diffida del datore si è manifestata quale esercizio del potere direttivo, ed è stato l’inadempimento alla stessa, espresso con i comportamenti successivi, ad attivare il procedimento disciplinare per tutti i fatti lesivi della dignità e sicurezza delle colleghe.
Cass Sez. Lav., 15.11.2023, Ord. n. 31790

Il periodo di comporto è un intervallo di tempo durante il quale un dipendente può assentarsi dal lavoro per malattia, infortunio, gravidanza o puerperio, senza il rischio di subire il recesso dal contratto.
Il licenziamento comunicato durante il periodo di comporto dovrà, infatti, ritenersi senz’altro nullo con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro.
La durata massima del periodo di comporto è disciplinata dalla legge e dai contratti collettivi nazionali.
Dal computo sono sempre escluse le assenze dovute a malattie o infortuni imputabili al datore di lavoro, per violazione delle norme in materia di tutela della salute e sicurezza, nonché, alcune altre specifiche patologie selezionate dalla contrattazione collettiva, in ragione, principalmente, della loro particolare gravità e dunque, per ragioni di tipo solidaristico (fra le quali ad esempio le malattie di natura oncologica).
Come più volte affermato dalla Corte di Cassazione, anche recentemente con l’Ordinanza n. 26997 del 21 settembre 2023, il lavoratore ha, inoltre, il diritto di sospendere il periodo di comporto presentando richiesta di fruizione delle ferie maturate e non godute.
Ciò, tuttavia, purché le ferie siano richieste prima della scadenza del comporto e ferma restando la facoltà del datore di lavoro di non acconsentire alla richiesta del dipendente, qualora sussistano concrete ed effettive ragioni organizzative ostative.

La Cassazione ha recentemente ribadito che, in tema di licenziamento disciplinare, l’insussistenza del fatto materiale contestato al lavoratore, ai fini della pronuncia reintegratoria di cui all’art. 3, comma 2, del d.lgs. n. 23 del 2015, rispetto alla quale resta estranea ogni valutazione circa la sproporzione del licenziamento, comprende non soltanto i casi in cui il fatto non si è verificato nella sua materialità, ma anche tutte le ipotesi in cui il fatto, materialmente accaduto, non assume rilievo disciplinare.

Cass. civ. Sez. Lav. Ordinanza 27/07/2023, n. 22881