Il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendosi escludere l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni”.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21950 del 21 luglio 2023, accogliendo il ricorso promosso dagli eredi di un lavoratore deceduto per malattia tumorale  contratta – in base alla loro tesi – nello svolgimento dell’attività lavorativa, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto la loro domanda di risarcimento danni nei confronti del datore di lavoro in ragione, fra l’altro, della prolungata massiccia dedizione al fumo del lavoratore deceduto, identificata dai Giudici della Corte d’Appello come causa esclusiva della malattia.

Secondo quanto affermato dai Giudici della Corte di Cassazione, in particolare, nel caso di malattia astrattamente ricollegabile a distinte cause di origine lavorativa ed extra lavorativa (fra le quali ultime, come nella fattispecie considerata, il fumo di sigaretta) un singolo fattore può essere considerato causa esclusiva della malattia solamente qualora, innescando una serie causale autonoma, sia stato in grado, da solo, di produrre l’evento.

Tale prova, tuttavia, non può essere oggetto di semplici presunzioni, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, in termini di “probabilità qualificata”.

Alla luce di tali premesse, la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva assegnato al fumo di sigaretta il ruolo di fattore causale autonomo, idoneo di per sé a produrre la patologia tumorale, in ragione di semplici presunzioni e non di un accertamento concreto ancorato a dati scientifici, è stata pertanto ritenuta errata.

La Corte di Cassazione ha recentemente espresso il principio secondo cui non è qualificabile come licenziamento orale il recesso datoriale per compimento del termine apposto al contratto di lavoro, sia esso autonomo o subordinato, allorquando la volontà di recedere sia espressa in forma scritta, temporalmente identificata, semanticamente non equivocabile.

Nel caso di specie, enunciando espressamente il principio di diritto, la Suprema Corte ha ritenuto di dover assegnare valore di intimazione di recesso alla proroga del rapporto di collaborazione in essere, disposta sino alla fine dell’anno ed intervenuta mediante lettera comunicata al lavoratore nella quale il datore aveva precisato che al termine della proroga il rapporto avrebbe avuto temine senza necessità di ulteriori comunicazioni.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 27/06/2023, n. 18254

La disciplina limitativa del potere di licenziamento non è applicabile, ai sensi dell’art. 10 L. n. 604/1966 ai dirigenti convenzionali cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo, applicabile, siano essi dirigenti apicali, siano dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo dirigenti vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente.

È quanto ha recentemente affermato la Corte di Cassazione con la sentenza Cass., sez. lav., 8 giugno 2023, n. 16208, con ciò sostanzialmente ribadendo il proprio consolidato orientamento secondo il quale, rientrano nel campo della c.d. libera recedibilità i rapporti di lavoro dei dipendenti a cui sia effettivamente attribuibile la qualifica dirigenziale in base ai parametri stabiliti dal contratto collettivo applicabile, siano essi  in posizione apicale ovvero anche in posizione non apicale, restandone invece esclusi e sottoposti quindi alla disciplina limitativa dei licenziamenti (con la possibilità, quindi, di contestare l’assenza di una giusta o di un giustificato motivo alla base del licenziamento) i c.d. pseudo rigenti.

La sentenza ha fra l’altro il merito di aver chiaramente delineato la figura dello “pseudo dirigente” (altrimenti detto “dirigente per convenzione” e di origine esclusivamente giurisprudenziale), riferibile  a quei lavoratori che pur essendo inquadrati contrattualmente nelle categorie dirigenziali (per motivi ad esempio correlati alla volontà del datore di lavoro di attribuir loro per ragioni di anzianità di servizio o di meritevolezza alcuni benefici contrattuali previsti per i lavoratori con qualifica dirigenziale) sul piano sostanziale, delle mansioni di fatto espletate, non esercitano funzioni corrispondenti  riconducibili alla declaratoria della categoria dirigenziale.

Secondo quanto emerge dalla sentenza in commento il discrimine fra “veri” dirigenti e pseudo dirigenti è dunque dato non solo e non tanto dalla posizione ricoperta dal lavoratore nell’ambito della gerarchia aziendale ma piuttosto dalla corrispondenza o meno fra le mansioni e responsabilità concretamente assegnate al lavoratore e la descrizione delle figure dirigenziali contenuta nel contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro.

“In tema di licenziamento disciplinare, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall’accertata illegittimità dell’ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d’inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell’illiceità con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012”.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza “Cass. Sez. Lav., 5 giugno 2023, n. 15676”, in relazione al licenziamento disciplinare di un lavoratore che si era rifiutato di prendere servizio a seguito della illegittima decisione del datore di lavoro di reintegrarlo nel posto di lavoro, ai sensi dell’art. 18, c. 4, della l. 300/1970, disponendo la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale.

Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, che ha confermato la decisione dei giudici merito che avevano stabilito l’illegittimità del licenziamento, “l’unilaterale trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale» è infatti «vietata dalla normativa in assenza di accordo delle parti risultante da atto scritto”.

Ne consegue la legittimità della condotta del lavoratore che, a fronte di una simile decisione unilaterale del datore di lavoro, si rifiuti di riprendere l’attività lavorativa, avvalendosi dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ. (“Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto”) e, di conseguenza, anche l’illegittimità del licenziamento disciplinare che su tale rifiuto pretenda di fondarsi.

Fra le novità introdotte dal recente “Decreto lavoro” (decreto legge n.48/2023), gioca sicuramente un ruolo di rilevo la riforma apportata alla disciplina in tema di contratti a termine.
In sintesi, a partire dal 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del Decreto, ferma restando la possibilità di stipulare liberamente contratti a termine di durata inferiore a 12 mesi, è possibile stipulare contratti a termine di durata superiore (vuoi sin dal primo contratto, vuoi per effetto di una successione di contratti ed in ogni casi entro il tetto massimo dei 24 mesi,) allorché, (1) vi sia l’esigenza di sostituzione di un lavoratore, ovvero, (2) si verifichi uno dei casi previsti dai contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali e associazioni datoriali comparativamente più rappresentative.
In assenza di previsioni contenute nei contratti collettivi opera, in via subordinata e fino al 30 aprile 2024, la clausola generale delle “ragioni tecniche, organizzative e produttive”, così come individuate dalle parti al momento della instaurazione del singolo rapporto di lavoro.
L’intenzione del legislatore sembrerebbe essere quella di trovare un compromesso fra l’ampia liberalizzazione dei contratti a termine che era stata realizzata con il “Jobs act” del 2015 e la disciplina decisamente più restrittiva delineata dalla più recente controriforma contenuta nel c.d. “Decreto dignità” del 2018 e dunque fra le diverse istanze sociali che erano alla base di entrambe le riforme.
Nell’attesa di verificare quale evoluzione la normativa in esame potrà avere in sede di concreta applicazione ed interpretazione da parte della giurisprudenza, si segnala che la materia è anche oggetto di una risalente Direttiva europea del 1999 la quale così come avvenuto vigente la precedente disciplina nazionale, è destinata ad incidere in maniera significativa sui limiti ai poteri attribuiti alla libertà contrattuale dalla riforma in esame.

La Corte di Appello di Lecce ha recentemente ribadito la natura del licenziamento per cosiddetto “scarso rendimento” precisando come tale licenziamento costituisca un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento di cui agli artt. 1453 e segg. c.c..
Su tale base la Corte ha affermato che, pur non costituendo il mancato raggiungimento di un risultato prefissato di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento dai essi può essere segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell’attività resa per un apprezzabile periodo di tempo, tale da giustificare il recesso.
Trattandosi una ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo ex art. 3, legge n. 604/1966, tuttavia, secondo la Corte, spetta al datore di lavoro fornire la prova, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore, di una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.
Corte App. Lecce, Sez. L. Sent. 19-04-2023, n. 324

Lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, giustifica il licenziamento, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la stessa attività, in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
L’onere di provare che l’attività extralavorativa di cui si tratta sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente, grava sul datore di lavoro.
È quanto affermato dalla recente sentenza della Corte di Cassazione Cass. Sez. Lav., 12 maggio 2023, n. 12994 in relazione ad una fattispecie nella quale era stato accertato, sulla base di investigazioni private datoriali che il lavoratore, nel periodo di malattia, aveva tenuto comportamenti (di protratta stazione eretta; di guida di auto, scooter o moto; di scarico e carico di scatoloni; di spazzamento del marciapiedi antistante l’esercizio commerciale intestato ai familiari; di ripetuti spostamenti a piedi; di montaggio con altri di un portabagagli sulla propria vettura; di carico e scarico di materiale edile) integranti condotte incaute per inosservanza delle prescrizioni mediche di “riposo e cure” e, così, ostacolato e, comunque, ritardato la guarigione, in violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede.
Con la decisione in esame la Cassazione ha rigettato il ricorso, promosso avverso la sentenza del giudice di secondo grado che aveva dichiarato la validità del licenziamento, rilevando come correttamente la Corte d’appello – premesso il principio di diritto di inesistenza di un obbligo del lavoratore in stato di malattia di astenersi da attività, anche lavorative, con essa compatibili, purché con le cautele idonee a non ritardarne la guarigione, nel rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà – avesse ritenuto sussistente, nella fattispecie, una giusta causa di licenziamento, essendo accertata la violazione dei suddetti obblighi.

Le condotte extralavorative che possono assumere rilievo ai fini dell’integrazione della giusta causa di licenziamento afferiscono, non solo alla vita privata in senso stretto, bensì a tutti gli ambiti nei quali si esplica la personalità del lavoratore.
Si deve trattare tuttavia di comportamenti, non necessariamente successivi all’instaurazione del rapporto di lavoro ma appresi dal datore di lavoro dopo la conclusione del contratto, che non siano compatibili con il grado di affidamento richiesto dalle mansioni assegnate al dipendente e dal ruolo da quest’ultimo rivestito nell’organizzazione aziendale.
Possono, di conseguenza, giustificare il licenziamento anche le condotte tenute dal lavoratore in occasione di altro rapporto di lavoro, tanto più se omogeneo rispetto a quello in cui il fatto viene in considerazione.
Secondo quanto recentemente affermato dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 8944 del 29 marzo 2023, con la quale è stato confermato l’orientamento interpretativo di cui sopra, infatti, la fiducia, che è fattore condizionante la permanenza del rapporto, può essere compromessa, non solo in conseguenza di specifici inadempimenti contrattuali, ma anche in ragione di condotte extralavorative che, seppure tenute al di fuori dell’impresa o dell’ufficio e non direttamente riguardanti l’esecuzione della prestazione, nondimeno possono essere tali da ledere irrimediabilmente il vincolo fiduciario tra le parti
Spetterà in ogni caso alla insindacabile decisione del Giudice di merito, tenuto conto delle specificità del caso concreto ed in particolare delle peculiari caratteristiche del rapporto di lavoro di cui si discute, valutare se i comportamenti del lavoratore siano tali da compromettere le aspettative di un futuro puntuale adempimento dell’obbligazione lavorativa e giustificare quindi la decisione unilaterale del datore di lavoro di interrompere il rapporto di lavoro senza preavviso.

La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che in caso di azione risarcitoria ex art. 2087, cod. civ., per i danni cagionati dallo svolgimento di un’attività eccedente la ragionevole tollerabilità, ad essere oggetto di censura da parte del lavoratore, al quale sia stato richiesto un lavoro eccedente siffatta tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, è l’inesatto adempimento altrui rispetto all’obbligo di sicurezza previsto dal menzionato articolo. Sul lavoratore grava, quindi, l’onere di allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile.
Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata in quanto la Corte di Appello, nel confermare la pronuncia di primo grado di rigetto della domanda di condanna al risarcimento del danno conseguente ad un infarto del miocardio occorso al ricorrente a causa del sottodimensionamento dell’organico che lo aveva costretto per molti anni ad intollerabili ritmi e turni di lavoro, aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro, in quanto il lavoratore non aveva fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno ed in concreto esigibili con riferimento agli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo, e di normale adozione nel settore.
Corte di Cassazione, Sez. Lav. Ordinanza 28 febbraio 2023, n. 6008.

La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento (nel caso di adozione internazionale il termine di tre anni decorre dalla comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando, ovvero dalla comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento) devono essere convalidate dal Servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio.
Ai sensi del IV comma dell’art 55 del Decreto legislativo 26/03/2001 n. 151 (c.d. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), in assenza di tale convalida la risoluzione del rapporto di lavoro è inefficace.
La disciplina in esame è stata recentemente oggetto di interpretazione da parte della Corte di Cassazione, la quale, con Ordinanza 23 febbraio 2023, n. 5598, ha stabilito che le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice madre nel periodo protetto previsto dall’art. 55 del Decreto legislativo n. 151/2021, in assenza di convalida da parte dai Servizi ispettivi, restano inefficaci anche dopo il venir meno di tale protezione.
Come i Giudici della Corte di Cassazione hanno avuto modo di precisare, la ratio che sorregge la disposizione di cui si tratta è infatti quella di salvaguardare la genuinità e la spontaneità della volontà dismissiva espressa dalla lavoratrice o dal lavoratore in un periodo particolarmente delicato, corrispondente alla gravidanza ed ai primi anni di vita del bambino, contro eventuali abusi datoriali volti a viziare o condizionare in vario modo la formazione della volontà. Per questa ragione il legislatore ha inteso affidare ai Servizi ispettivi ministeriali la verifica della effettività della volontà di risolvere il rapporto, condizionando alla convalida l’efficacia del negozio di recesso.
Secondo quanto affermato nella sentenza in esame, quindi, “risulta del tutto evidente che la specifica finalità antiabusiva perseguita dalla norma in tema di convalida risulterebbe in larga parte vanificata ove si accedesse all’opzione per la quale una volta trascorso il periodo protetto non sarebbe necessaria la convalida da parte dei servizi ispettivi ministeriali per il prodursi della efficacia del negozio di recesso; il legislatore ha, infatti, inteso tutelare una volta per tutte la genuinità e spontaneità della volontà del dipendente con riferimento al momento delle dimissioni ed in relazione a tale elemento temporale la cessazione del periodo protetto costituisce un fattore neutro, inidoneo ad incidere, ora per allora, sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente”.