L’obbligo di prevenzione di cui all’art. 2087 cod. civ. impone al datore di lavoro di adottare, non solo le particolari misure tassativamente imposte dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, bensì anche tutte le altre misure che in concreto siano richieste dalla specificità del rischio esistente.
La sicurezza del lavoratore costituisce infatti un bene di rilevanza costituzionale che impone – a chi si avvalga di una prestazione lavorativa eseguita in stato di subordinazione – di anteporre al proprio legittimo profitto la sicurezza di chi tale prestazione esegue.
Entrambe le affermazioni precedentemente riportate sono contenute nell’Ordinanza della Corte di Cassazione, n. 679, del 12 gennaio 2023 con la quale è stata riformata la sentenza della Corte d’Appello di Catania dell’1 agosto 2018 che aveva escluso la responsabilità colposa dell’Azienda ospedaliera di Catania per la malattia contratta in occasione lavoro da un proprio dipendente, tecnico di radiologia, sul presupposto che il datore di lavoro aveva assicurato i livelli generali di radioprotezione previsti dalla normativa vigente in materia.
In definitiva secondo quanto affermato dai giudici della Corte di Cassazione le misure di prevenzione previste dalla legge in relazione al tipo di attività esercitata, rappresentano soltanto lo standard minimale richiesto dal legislatore per la tutela della salute e della sicurezza del lavoratore.
Al fine di adempiere compiutamente agli obblighi di tutela della salute e della sicurezza sullo stesso gravanti ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. e di non incorrere in responsabilità in caso di malattia professionale o infortuni sul lavoro dei propri dipendenti, il datore di lavoro sarà quindi tenuto ad adottare anche ogni ulteriore misura che appaia a tal fine in concreto necessaria.

La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito il principio per cui il comportamento del dipendente che si avvale dei permessi ex lege 104/1992 per attendere ad esigenze diverse dall’assistenza integra l’abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, nei confronti sia del datore di lavoro, sia dell’Ente assicurativo, ed ha rilievo anche ai fini disciplinari.
Nel caso di specie il lavoratore durante il giorno si era assentato dal domicilio dell’invalida cui doveva prestare assistenza dalle 9,30 alle 13,30 e poi dalle 17,00 alle 19,23, nonostante che le caratteristiche dell’invalidità dell’assistita (gravemente obesa ed incapace di muoversi da sola sicché necessitava di assistenza per qualsiasi attività, assistenza che il lavoratore, per la sua prestanza, era in grado di offrire anche da solo) comportavano che questi dovesse rimanere nei pressi della stessa invalida per assisterla ed avrebbe potuto allontanarsi solo per brevissimi periodi.
La Corte di Cassazione ha, quindi, confermato la sentenza della Corte di Appello che aveva rinvenuto nella condotta del lavoratore una grave violazione dei doveri di correttezza e buona fede, con anche indebita percezione dell’indennità da parte dell’istituto previdenziale.
Corte di Cassazione, Sez. Lav. Ordinanza 25 gennaio 2023, n. 2235

Con la recente ordinanza n. 34968, del 22 novembre 2022, la Corte di Cassazione sez. Lavoro ha ribadito il proprio consolidato orientamento interpretativo in base al quale: “in tema di azione risarcitoria ex art. 2087 c.c. per i danni cagionati dallo svolgimento di un’attività eccedente la ragionevole tollerabilità, il lavoratore è tenuto ad allegare compiutamente lo svolgimento della prestazione secondo le predette modalità nocive e a provare il nesso causale tra il lavoro svolto e il danno, mentre al datore di lavoro, in ragione del suo dovere di assicurare che l’attività lavorativa non risulti pregiudizievole per l’integrità fisica e la personalità morale del dipendente, spetta dimostrare che la prestazione si è, invece, svolta secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, con modalità normali, congrue e tollerabili”.
Il principio è stato affermato con riferimento alla domanda di risarcimento dei danni alla salute avanzata da un dipendente pubblico il quale assumeva di aver contratto una patologia depressiva, con successivo infarto, in conseguenza di “superlavoro” derivante dallo svolgimento di mansioni inferiori e superiori a quelle previste per il proprio effettivo inquadramento professionale, con ritmi insostenibili e in ambiente disagiato, nonché, in assenza di qualsivoglia pianificazione e distribuzione dei carichi di lavoro da parte del datore di lavoro.
In sostanza, con l’ordinanza in esame la Corte di Cassazione ha chiarito che il lavoratore che agisca in giudizio affermando che un’attività di per sé legittima (quale appunto l’impiego in ufficio pubblico) si sia in concreto svolta con modalità devianti da quelle ordinarie e che proprio da ciò sia derivato un danno, ha l’onere di provare l’esistenza del danno subito come pure la nocività dell’ambiente lavorativo, nonché, la sussistenza di un collegamento causale tra tali due elementi (in estrema sintesi si dovrà dimostrare che il danno alla salute sia stato effettivamente causato dalle condizioni di lavoro di cui il lavoratore si lamenta).
Spetta, viceversa, al datore di lavoro, al fine di evitare una condanna al risarcimento, dimostrare che la prestazione lavorativa sia avvenuta con modalità normali, congrue e tollerabili per l’integrità fisica e la personalità morale del lavoratore.

La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che il rapporto di lavoro a tempo indeterminato, così come modulato per effetto della L. n. 92 del 2012 (legge Fornero) e del D.Lgs. n. 23 del 2015 (c.d. Jobs Act), mancando dei presupposti di predeterminazione certa delle fattispecie di risoluzione e di una loro tutela adeguata, non è assistito da un regime di stabilità. Sicché, per tutti quei diritti che non siano prescritti al momento di entrata in vigore della L. n. 92 del 2012, il termine di prescrizione decorre, a norma del combinato disposto degli artt. 2948, n. 4 e 2935 c.c., dalla cessazione del rapporto di lavoro.

Il principio era già stato affermato di recente dal giudice di legittimità (Cass. civ. Sez. lavoro, 06/09/2022, n. 26246).

Nel nostro ordinamento non esiste una specifica disciplina della “reperibilità”, né esiste, tanto a livello nazionale quanto comunitario, alcuna normativa che stabilisca se, e a quali condizioni, il periodo di tempo in cui il lavoratore rimane disponibile e contattabile dal datore di lavoro al di fuori del proprio turno di lavoro, possa essere considerato “orario di lavoro”.

Il fenomeno riguarda, invero, tipicamente alcune particolari figure professionali quali, esercenti professioni sanitarie, tecnici incaricati della manutenzione di impianti a funzionamento necessariamente continuo ed altre figure chiamate ad intervenire in situazioni di emergenza (ad esempio vigili del fuoco).

In ragione della sua ampia diffusione in concreto, la fattispecie è stata tuttavia oggetto di ripetuto esame da parte della Corte di Cassazione la quale, in linea con l’orientamento espresso in materia anche dalla Corte di Giustizia Europea, ha nel tempo stabilito alcuni principi interpretativi a cui è possibile ispirarsi nella valutazione dei singoli casi concreti.

Più in particolare, nelle proprie più recenti decisioni, la Corte di Cassazione, in linea con quanto disposto dal Dlgs. n. 66 del 2003, ha affermato che costituisce orario di lavoro qualsiasi periodo in cui il lavoratore: (1) sia “al lavoro”, ovvero, nel luogo di lavoro determinato dal datore di lavoro (non necessariamente coincidente con la sede di lavoro); (2) sia “a disposizione del datore di lavoro”, ovvero, limitato nella propria possibilità di gestire il proprio tempo libero, ancorché non concretamente impegnato nello svolgimento delle proprie mansioni lavorative.

Qualora al contrario il lavoratore si limiti ad obbligarsi ad intervenire entro un periodo di tempo determinato dal datore di lavoro, tale periodo costituisce orario di lavoro soltanto se l’obbligo in questione comprima in maniera significativa e oggettiva la libertà del lavoratore di riposarsi e dedicarsi liberamente ad attività extra lavorative.

In linea con il proprio precedente orientamento, la Corte di Cassazione – con la sentenza Sez. Lavoro, 29.9.2022, n. 28398, ha recentemente ribadito che Il lavoratore può registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda.

Non serve, in particolare, il consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati – come l’audio acquisito da un ignaro interlocutore – serve a precostituirsi un mezzo di prova, magari contro il datore: ciò purché l’utilizzo dell’ audio non vada oltre le finalità della tesi difensiva e, dunque, le necessità del legittimo esercizio di un diritto.

Secondo la Corte, in particolare, il diritto alla difesa prevale su quello alla privacy, dovendosi estendere tale diritto di difesa a tutte le attività dirette ad acquisire elementi di prova utilizzabili in giudizio, anche prima che la controversia sia instaurata in modo formale.

Con la recente ordinanza n. 29059 del 6 ottobre 2022 la Corte di Cassazione ha fornito un ulteriore importante contributo interpretativo in merito alla definizione di straining, fattispecie di origine giurisprudenziale e priva di alcuna tipizzazione normativa, che si ritiene integrata in presenza di situazioni di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione ostile da parte del datore di lavoro ovvero di altri dipendenti senza, in quest’ultimo caso, che il datore di lavoro intervenga per reprimere, scoraggiare o impedire tali comportamenti.
In sostanza si tratta di una forma attenuata di “mobbing” in cui il comportamento vessatorio del datore di lavoro, pur non presentando quei tratti di frequenza e continuità nel tempo tipici appunto del mobbing, sia comunque idoneo a ledere diritti fondamentali della persona.
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione ha ribadito che sussiste “straining” e, dunque, responsabilità del datore di lavoro, solamente nell’ipotesi in cui l’ambiente di lavoro si manifesti di per sé nocivo per la sua connotazione indebitamente stressogena.
Deve trattarsi in sostanza di azioni ostili anche se limitate nel tempo tali da provocare una modificazione negativa, costante e permanente, della situazione lavorativa del lavoratore idonea a pregiudicarne la salute o altri diritti fondamentali della persona.
Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, tale connotazione negativa dell’ambiente lavorativo non sussiste allorché si delinei soltanto una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro (ancorché, come nel caso deciso, in presenza “sgradevoli affermazioni” e forti critiche professionali rivolte al lavoratore) posto che le stesse divergenze spesso risultano un’inevitabile conseguenza del rapporto interpersonale tra colleghi e superiori, di per sé possibile fonte di tensioni.
In definitiva, in base alla sentenza in esame, una situazione di accesa conflittualità può quindi sfociare in una malattia del lavoratore risarcibile solo in presenza di una comprovata esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano.

Come si è già segnalato, l’1 agosto 2022 è entrato in vigore il D.L.vo n. 104, del 27 giugno 2022 (c.d. “Decreto trasparenza”) con il quale il nostro Legislatore ha dato attuazione alla Direttiva Europea 2019/1152 “relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione Europea”.

Il Decreto – oltre ad aver stabilito rilevanti novità in materia di diritto all’informazione dei lavoratori, di cui già abbiamo dato notizia in altro precedente articolo della Newsletter di Settembre 2022 – ha fissato alcune prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro destinante ad incidere in maniera non irrilevante sulla regolamentazione di determinate tipologie di rapporto di lavoro.

Di seguito, riportiamo sinteticamente le principali novità del Decreto.

Patto di prova

La durata massima del patto di prova è stata fissata in 6 mesi, fatta salva l’eventuale durata inferiore prevista dai contratti collettivi (è da segnalare, tuttavia, che tale limite temporale indirettamente già esisteva stante l’applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti decorsi 6 mesi dalla instaurazione del rapporto di lavoro, anche in presenza di patto di prova).

In caso di contratto a termine la durata del patto di prova dovrà essere proporzionale alla durata del contratto stesso; inoltre, in caso di rinnovo del contratto di lavoro per le stesse mansioni, il periodo di prova non potrà essere ripetuto.

In ipotesi di assenza dal lavoro, ad esempio, per malattia, infortunio, congedo parentale o maternità, il periodo di prova dovrà infine essere prolungato per la corrispondente durata.

Cumulo di impieghi

Il datore di lavoro non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro.

Resta tuttavia  salva la facoltà di negare o limitare tale facoltà ove lo svolgimento di altra attività lavorativa sia incompatibile con esigenze di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore (si pensi al caso di superamento della durata massima della prestazione lavorativa), ovvero, con la necessità per il datore di lavoro di garantire l’integrità di un determinato servizio pubblico svolto, ovvero ancora quando l’ulteriore attività lavorativa risulti in conflitto di interessi con l’attività svolta dal datore di lavoro.

Formazione obbligatoria

La formazione obbligatoria dovrà essere garantita dal datore di lavoro, gratuitamente, e possibilmente svolta durante l’orario di lavoro.

Salvo che in casi specifici la legge o la contrattazione collettiva non dispongano diversamente, è tuttavia esclusa dal campo di applicazione della normativa in esame “la formazione necessaria al lavoratore per ottenere o rinnovare una qualifica professionale”.

Prevedibilità del lavoro

Qualora con riferimento alla tipologia del rapporto di lavoro, l’organizzazione del lavoro sia interamente o in gran parte imprevedibile (in sostanza si tratta di quei rapporti di lavoro in cui non sia predeterminato l’orario di lavoro e la sua collocazione temporale), il datore di lavoro può imporre al lavoratore di svolgere le proprie prestazioni lavorative solamente quando:

1 il lavoro sia da svolgere entro ore e giorni di riferimento predeterminati e

  1. il lavoratore sia stato informato dal suo datore di lavoro sull’incarico o la prestazione da eseguire, con un ragionevole periodo di preavviso.

In carenza di una o entrambe le condizioni di cui sopra il lavoratore avrà il diritto di rifiutare di assumere un incarico di lavoro o di svolgere le proprie prestazioni di lavoro, senza subire alcun pregiudizio anche di natura disciplinare.

In linea con il proprio precedente orientamento, la Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che Il lavoratore può registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda.

Non serve, in particolare, il consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati – come l’audio acquisito da un ignaro interlocutore – serve a precostituirsi un mezzo di prova, magari contro il datore: ciò purché l’utilizzo dell’audio non vada oltre le finalità della tesi difensiva e, dunque, le necessità del legittimo esercizio di un diritto.

Secondo la Corte, in particolare, il diritto alla difesa prevale su quello alla privacy, dovendosi estendere tale diritto di difesa a tutte le attività dirette ad acquisire elementi di prova utilizzabili in giudizio, anche prima che la controversia sia instaurata in modo formale.

L’1 agosto 2022 è entrato in vigore il D.L.vo n. 104, del 27 giugno 2022 (c.d. “Decreto trasparenza”), che prevede, fra l’altro, rilevanti novità normative in tema di tutela del diritto all’informazione dei lavoratori.

Il Decreto ha il dichiarato fine di garantire ai lavoratori un’informazione chiara, trasparente, completa e gratuita circa le proprie condizioni lavorative e trova applicazione con riferimento, tanto ai rapporti di lavoro del settore privato (rapporti di lavoro subordinato, a tempo determinato, indeterminato, parziale e pieno, rapporti di lavoro somministrato e intermittente, rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e rapporti di prestazione occasionale), quanto  ai rapporti di lavoro delle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici ed a quelli del settore marittimo.

In base a quanto previsto dalla normativa in esame, il datore di lavoro, al momento dell’assunzione (ovvero, in determinate ipotesi, al più tardi entro una settimana, ovvero, 20 giorni dall’inizio del rapporto di lavoro) dovrà fornire al lavoratore, per iscritto, in formato cartaceo o digitale, in aggiunta ai dati normalmente comunicati ai fini della individuazione della tipologia di contratto sottoscritto e delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa (relativi, ad esempio, al nome delle parti, alla sede ed all’orario di lavoro, all’inquadramento professionale attribuito al lavoratore ed al termine iniziale e finale del rapporto di lavoro) anche le seguenti informazioni:

  • eventuale diritto a ricevere formazione;
  • durata e modalità di fruizione delle ferie e degli altri congedi retribuiti riconosciuti al lavoratore;
  • procedura e termini del preavviso, in caso di licenziamento e di dimissioni del lavoratore;
  • programmazione dell’orario di lavoro;
  • contratto collettivo, anche aziendale, applicato, con esplicita indicazione delle parti che lo hanno sottoscritto;

Ulteriori obblighi informativi sono, inoltre, specificamente previsti in ipotesi di uso da parte del datore di lavoro di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati (“deputati a fornire indicazioni rilevanti ai fini della assunzione o del conferimento dell’incarico, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro, dell’assegnazione di compiti o mansioni nonché indicazioni incidenti sulla sorveglianza, la valutazione, le prestazioni e l’adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori”)  ed in caso di svolgimento della prestazione lavorativa all’estero.

Al fine di garantire l’effettività dei diritti all’informazione dallo stesso ridelineati, il Decreto trasparenza ha, inoltre, previsto per caso di omesso, incompleto od inesatto adempimento dei correlativi obblighi a carico dei datori di lavoro, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria che va da un minimo di 250,00 euro ad un massimo di 1.500,00 euro per ogni lavoratore interessato (fino a 5.000 euro se la violazione riguarda più di 10 lavoratori).

Da ultimo, si segnala che la normativa in commento si applica anche ai rapporti di lavoro già in essere al momento della sua entrata in vigore, essendo in tali ultimi casi facoltà dei lavoratori di chiedere per iscritto al datore di lavoro la comunicazione dei dati previsti dal Decreto, con conseguente obbligo del datore di lavoro di fornirli, sempre per iscritto, entro i successivi 60 giorni.