Come si è già segnalato, l’1 agosto 2022 è entrato in vigore il D.L.vo n. 104, del 27 giugno 2022 (c.d. “Decreto trasparenza”) con il quale il nostro Legislatore ha dato attuazione alla Direttiva Europea 2019/1152 “relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione Europea”.

Il Decreto – oltre ad aver stabilito rilevanti novità in materia di diritto all’informazione dei lavoratori, di cui già abbiamo dato notizia in altro precedente articolo della Newsletter di Settembre 2022 – ha fissato alcune prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro destinante ad incidere in maniera non irrilevante sulla regolamentazione di determinate tipologie di rapporto di lavoro.

Di seguito, riportiamo sinteticamente le principali novità del Decreto.

Patto di prova

La durata massima del patto di prova è stata fissata in 6 mesi, fatta salva l’eventuale durata inferiore prevista dai contratti collettivi (è da segnalare, tuttavia, che tale limite temporale indirettamente già esisteva stante l’applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti decorsi 6 mesi dalla instaurazione del rapporto di lavoro, anche in presenza di patto di prova).

In caso di contratto a termine la durata del patto di prova dovrà essere proporzionale alla durata del contratto stesso; inoltre, in caso di rinnovo del contratto di lavoro per le stesse mansioni, il periodo di prova non potrà essere ripetuto.

In ipotesi di assenza dal lavoro, ad esempio, per malattia, infortunio, congedo parentale o maternità, il periodo di prova dovrà infine essere prolungato per la corrispondente durata.

Cumulo di impieghi

Il datore di lavoro non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro.

Resta tuttavia  salva la facoltà di negare o limitare tale facoltà ove lo svolgimento di altra attività lavorativa sia incompatibile con esigenze di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore (si pensi al caso di superamento della durata massima della prestazione lavorativa), ovvero, con la necessità per il datore di lavoro di garantire l’integrità di un determinato servizio pubblico svolto, ovvero ancora quando l’ulteriore attività lavorativa risulti in conflitto di interessi con l’attività svolta dal datore di lavoro.

Formazione obbligatoria

La formazione obbligatoria dovrà essere garantita dal datore di lavoro, gratuitamente, e possibilmente svolta durante l’orario di lavoro.

Salvo che in casi specifici la legge o la contrattazione collettiva non dispongano diversamente, è tuttavia esclusa dal campo di applicazione della normativa in esame “la formazione necessaria al lavoratore per ottenere o rinnovare una qualifica professionale”.

Prevedibilità del lavoro

Qualora con riferimento alla tipologia del rapporto di lavoro, l’organizzazione del lavoro sia interamente o in gran parte imprevedibile (in sostanza si tratta di quei rapporti di lavoro in cui non sia predeterminato l’orario di lavoro e la sua collocazione temporale), il datore di lavoro può imporre al lavoratore di svolgere le proprie prestazioni lavorative solamente quando:

1 il lavoro sia da svolgere entro ore e giorni di riferimento predeterminati e

  1. il lavoratore sia stato informato dal suo datore di lavoro sull’incarico o la prestazione da eseguire, con un ragionevole periodo di preavviso.

In carenza di una o entrambe le condizioni di cui sopra il lavoratore avrà il diritto di rifiutare di assumere un incarico di lavoro o di svolgere le proprie prestazioni di lavoro, senza subire alcun pregiudizio anche di natura disciplinare.

In linea con il proprio precedente orientamento, la Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che Il lavoratore può registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda.

Non serve, in particolare, il consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati – come l’audio acquisito da un ignaro interlocutore – serve a precostituirsi un mezzo di prova, magari contro il datore: ciò purché l’utilizzo dell’audio non vada oltre le finalità della tesi difensiva e, dunque, le necessità del legittimo esercizio di un diritto.

Secondo la Corte, in particolare, il diritto alla difesa prevale su quello alla privacy, dovendosi estendere tale diritto di difesa a tutte le attività dirette ad acquisire elementi di prova utilizzabili in giudizio, anche prima che la controversia sia instaurata in modo formale.

L’1 agosto 2022 è entrato in vigore il D.L.vo n. 104, del 27 giugno 2022 (c.d. “Decreto trasparenza”), che prevede, fra l’altro, rilevanti novità normative in tema di tutela del diritto all’informazione dei lavoratori.

Il Decreto ha il dichiarato fine di garantire ai lavoratori un’informazione chiara, trasparente, completa e gratuita circa le proprie condizioni lavorative e trova applicazione con riferimento, tanto ai rapporti di lavoro del settore privato (rapporti di lavoro subordinato, a tempo determinato, indeterminato, parziale e pieno, rapporti di lavoro somministrato e intermittente, rapporti di collaborazione coordinata e continuativa e rapporti di prestazione occasionale), quanto  ai rapporti di lavoro delle pubbliche amministrazioni e degli enti pubblici economici ed a quelli del settore marittimo.

In base a quanto previsto dalla normativa in esame, il datore di lavoro, al momento dell’assunzione (ovvero, in determinate ipotesi, al più tardi entro una settimana, ovvero, 20 giorni dall’inizio del rapporto di lavoro) dovrà fornire al lavoratore, per iscritto, in formato cartaceo o digitale, in aggiunta ai dati normalmente comunicati ai fini della individuazione della tipologia di contratto sottoscritto e delle modalità di esecuzione della prestazione lavorativa (relativi, ad esempio, al nome delle parti, alla sede ed all’orario di lavoro, all’inquadramento professionale attribuito al lavoratore ed al termine iniziale e finale del rapporto di lavoro) anche le seguenti informazioni:

  • eventuale diritto a ricevere formazione;
  • durata e modalità di fruizione delle ferie e degli altri congedi retribuiti riconosciuti al lavoratore;
  • procedura e termini del preavviso, in caso di licenziamento e di dimissioni del lavoratore;
  • programmazione dell’orario di lavoro;
  • contratto collettivo, anche aziendale, applicato, con esplicita indicazione delle parti che lo hanno sottoscritto;

Ulteriori obblighi informativi sono, inoltre, specificamente previsti in ipotesi di uso da parte del datore di lavoro di sistemi decisionali o di monitoraggio automatizzati (“deputati a fornire indicazioni rilevanti ai fini della assunzione o del conferimento dell’incarico, della gestione o della cessazione del rapporto di lavoro, dell’assegnazione di compiti o mansioni nonché indicazioni incidenti sulla sorveglianza, la valutazione, le prestazioni e l’adempimento delle obbligazioni contrattuali dei lavoratori”)  ed in caso di svolgimento della prestazione lavorativa all’estero.

Al fine di garantire l’effettività dei diritti all’informazione dallo stesso ridelineati, il Decreto trasparenza ha, inoltre, previsto per caso di omesso, incompleto od inesatto adempimento dei correlativi obblighi a carico dei datori di lavoro, l’applicazione di una sanzione amministrativa pecuniaria che va da un minimo di 250,00 euro ad un massimo di 1.500,00 euro per ogni lavoratore interessato (fino a 5.000 euro se la violazione riguarda più di 10 lavoratori).

Da ultimo, si segnala che la normativa in commento si applica anche ai rapporti di lavoro già in essere al momento della sua entrata in vigore, essendo in tali ultimi casi facoltà dei lavoratori di chiedere per iscritto al datore di lavoro la comunicazione dei dati previsti dal Decreto, con conseguente obbligo del datore di lavoro di fornirli, sempre per iscritto, entro i successivi 60 giorni.

Il trasferimento del dipendente dovuto ad incompatibilità ambientale trova la sua ragione nello stato di disorganizzazione e disfunzione dell’unità produttiva.

Il provvedimento datoriale, quindi, va ricondotto alle esigenze tecniche, organizzative e produttive di cui all’art. 2103 c.c., piuttosto che, sia pure atipicamente, a ragioni punitive e disciplinari, con la conseguenza che la legittimità del provvedimento datoriale di trasferimento prescinde dalla colpa in senso lato del lavoratore trasferito, come dall’osservanza di qualsiasi altra garanzia sostanziale o procedimentale che sia stabilita per le sanzioni disciplinari.

In tale ipotesi il controllo giurisdizionale sulle comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, che legittimano il trasferimento del lavoratore subordinato, deve essere diretto ad accertare soltanto se vi sia corrispondenza tra il provvedimento datoriale e le finalità tipiche dell’impresa, e cioè se l’incompatibilità, determinando conseguenze quali tensione nei rapporti personali o contrasti nell’ambiente di lavoro che costituiscono esse stesse causa di disorganizzazione e disfunzione nell’unità produttiva, realizzi un’obiettiva esigenza aziendale di modifica del luogo di lavoro.

Il Giudice, inoltre, deve tenere conto del principio di libertà dell’iniziativa economica privata espresso dall’art. 41 Cost e non può estendere il proprio controllo al merito della scelta imprenditoriale, né tale scelta deve presentare necessariamente i caratteri della inevitabilità, essendo sufficiente che il trasferimento concreti una tra le scelte ragionevoli che il datore di lavoro possa adottare sul piano tecnico, organizzativo o produttivo.

In tal senso recentemente si è espressa la Corte di Appello di Roma (App. Roma, Sez. L, Sent. 01-06-2022, n. 2230).

Per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso”.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la recente Ordinanza n. 21465 del 6 luglio 2022, con la quale la medesima Corte ha anche avuto modo di precisare che:

dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non operando l’art. 5 l. n. 604 del 1966; esso può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 23583 del 2019), con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza il motivo ritorsivo”.

In sintesi la Corte di Cassazione ha ribadito che il licenziamento ritorsivo (intimato per motivi illeciti, generalmente diversi da quelli formalmente indicati) può essere rilevato dal giudice e dichiarato nullo solo laddove l’intento ritorsivo del datore di lavoro sia stato il motivo determinante della volontà di recesso; il relativo onere della prova è a carico del lavoratore licenziato che dovrà dimostrare l’esistenza ei circostanze specifiche tali da far desumere il motivo ritorsivo.

Per completezza, ricordiamo che, ove ritenuto sussistente, il licenziamento sarà dichiarato nullo a prescindere dall’eventuale esistenza di una giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

Dalla nullità del licenziamento deriverà, inoltre, l’applicazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 (cd. Jobs Act) con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro (ovvero, al pagamento di un’indennità corrispondente a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr) ed al risarcimento del danno subito per il licenziamento in ragione di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.

Con la sentenza n. 7400 del 7 marzo 2022 la sezione lavoro della Corte di Cassazione, ha stabilito che “non è consentito al datore di lavoro tornare sulle scelte compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero, ovvero ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere, attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali la cui legittimità è subordinata alla individuazione di situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo.

Secondo quanto precisato nell’ambito della medesima sentenza, infatti, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo realizza uno schema in frode alla legge (si considerano tali, ai sensi dell’art. 1344 c.c., i contratti e, più in generale gli atti negoziali, che “costituiscono il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”).

Ne consegue la nullità del licenziamento individuale (nel caso deciso con la sentenza in esame si trattava del licenziamento di un dirigente aziendale, del quale era stata accertata la prossimità temporale e l’identità delle ragioni rispetto ad altra precedente procedura collettiva posta in essere dal medesimo datore di lavoro) ed il conseguente diritto del lavoratore licenziato alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché, in base alla normativa attualmente vigente, al risarcimento del danno, in ragione di un’indennità corrispondente alla retribuzione spettante per il periodo compreso fra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità), con contestuale condanna del datore di lavoro al versamento dei corrispondenti contributi previdenziali e assistenziali.

È legittimo il controllo c.d. difensivo del datore di lavoro sulle strutture informatiche aziendali in uso al lavoratore, a condizione che esso sia occasionato dalla necessità indifferibile di accertare lo stato dei fatti a fronte del sospetto di un comportamento illecito e che detto controllo prescinda dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa essendo, invece, diretto ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti” (Corte di Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 25732/2021) .

La Corte ha, sul punto, evidenziato che il controllo sulle strutture informatiche aziendali in uso al lavoratore è ammissibile solo dove il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto nei confronti del lavoratore e precisato che il controllo ex post non può riferirsi all’esame ed all’analisi di informazioni acquisite, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 Statuto dei lavoratori, prima dell’insorgere del “fondato sospetto”.

Nel caso di specie nella cartella di download del disco fisso di una lavoratrice era presente un file scaricato che aveva propagato un virus che, partito dal computer aziendale in uso alla lavoratrice, aveva iniziato a propagarsi nella rete aziendale, criptando i files all’interno di vari dischi di rete.

La Corte ha evidenziato che per confermare la legittimità del controllo operato dal datore di lavoro occorreva dimostrare che il sospetto della condotta illecita della dipendente (che aveva navigato su internet in orario di lavoro su siti non consentiti) fosse sorto antecedentemente al ritrovamento del file.

Con la sentenza n. 15118 del 2021 la Corte di Cassazione è ritornata sui propri passi rispetto ad altro proprio recentissimo precedente (la sentenza n. 15401 del 2020), pronunciandosi a favore di una definizione più ristretta della nozione di licenziamento collettivo.

Il tema ha rilevanza ai fini della delimitazione del campo di applicazione della normativa prevista per tale particolare tipologia di licenziamenti la quale prevede una serie di oneri procedurali e garanzie per i lavoratori idonei ad incidere in maniera significativa sulle scelte imprenditoriali del datore di lavoro.

Fra tali oneri e garanzie, l’obbligo di comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali e alle associazioni di categoria la propria intenzione di effettuare i licenziamenti, l’obbligo di attenersi a determinati criteri nella scelta dei lavoratori da licenziare, nonché, il diritto di precedenza del lavoratore nella riassunzione presso la medesima azienda entro 6 mesi dal licenziamento.

In sintesi, la sentenza in esame ha affermato che l’art. 24 L. n. 223/1991, secondo il quale la disciplina in materia di licenziamento collettivo si applica ad imprese “che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni” vada interpretata come facente riferimento soltanto a “chiare manifestazioni della volontà di recesso da parte del datore di lavoro”.

Se, con la precedente sentenza n. 15401/2020, la Corte di Cassazione aveva incluso nel novero dei “licenziamenti” da computare ai fini del superamento della soglia che fa scattare l’obbligo di avviare una procedura di licenziamento collettivo, anche quegli atti che vengono comunemente definiti “licenziamenti indiretti” (fra i quali,  i casi di risoluzione consensuale o dimissioni volontarie del lavoratore a fronte di una modifica sostanziale e svantaggiosa delle condizioni di lavoro disposta unilateralmente dal datore di lavoro), con la pronuncia in esame la medesima Corte è quindi tornata ad una definizione del concetto di licenziamento collettivo più restrittiva tesa ad attribuire rilevanza ai soli casi di veri e propri licenziamenti, ovvero, ad ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di manifestazione della volontà unilaterale di recesso da pare datore di lavoro.

Resta da verificare se tale ritorno al precedente orientamento della giurisprudenza rimarrà costante ovvero se le ragioni di adeguamento al diritto dell’Unione europea che hanno determinato l’interpretazione più estensiva dello stesso Giudice di legittimità di cui si è detto, torneranno nella giurisprudenza della Cassazione o in quella di merito nuovamente a prevalere.

I recenti interventi “normativi” in materia di misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da nuovo coronavirus (ovvero, in particolare, il D.L. 7 ottobre 2020, n. 125 ed i DPCM, 7 ottobre 2020, 13 ottobre 2020 e 24 ottobre 2020) non paiono aver apportato alcuna specifica modifica alla disciplina applicabile alle ipotesi di contagio da Covid 19 avvenuto sul luogo di lavoro.

Sia per quanto riguarda la determinazione dei limiti della copertura assicurativa da parte dell’INAIL, sia per quanto riguarda la valutazione della responsabilità del datore di lavoro, il contagio da Covid 19 avvenuto sul luogo di lavoro sarà, quindi, trattato come infortunio sul lavoro e non – come inizialmente ipotizzato da alcuni commentatori che si sono, a vario titolo, occupati della materia – come malattia professionale.

Ciò, anche in ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale – recentemente recepito con specifico riferimento al contagio da Covid 19, anche dall’INAIL con proprie circolari interpretative – secondo il quale, la causa virulenta posta alla base delle malattie infettive e parassitarie, deve ritenersi equiparata alla causa violenta tipica degli infortuni sul lavoro.

Ne consegue l’applicabilità anche al caso di affezioni che dovessero colpire il lavoratore in conseguenza di infezioni da Coronavirus, dell’art. 2087 c.c. ( “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) norma che, al fine di escluderne la  responsabilità per i danni conseguenti ad infortuni sul lavoro, impone al datore di lavoro di dimostrare di aver posto in essere tutti gli accorgimenti (nel caso di specie, si tratterà di quelli previsti dagli appositi “protocolli” allegati ai vari provvedimenti normativi in tema di Covid-19, di cui da ultimo il DPCM 24 ottobre 2020 ha espressamente ribadito la necessità di applicazione) per evitare l’infortunio.

Ciò, evidentemente, ove risulti che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro, circostanza che – nonostante le ben note peculiarità del virus di cui si tratta ed in particolare, la sua facile trasmissibilità e diffusione pandemica – potrà ritenersi presunta solo per particolari tipologie di lavoratori quali (in primis) gli operatori sanitari nonché tutti i lavoratori che si trovino a frequente contatto col pubblico /utenza (ad esempio i lavoratori di front office, cassieri, banconisti, addetti alle pulizie in strutture sanitarie ecc.ecc.).

Resta infine da tener conto di come alcune delle misure di contenimento del contagio confermate, ripristinate ovvero previste ex novo dalla normativa emergenziale di cui sopra ( si pensi ad esempio agli obblighi legati all’uso della mascherina e di distanziamento interpersonale)  incideranno sui doveri di tutela della salute dei propri lavoratori gravanti sul datore di lavoro,  essendo prevedibile che quest’ultimo sarà chiamato a rispondere anche di eventuali inadempimenti agli obblighi di vigilare sul rispetto delle medesime misure da parte dei propri dipendenti, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. a prescindere dalla esplicita previsione di tali doveri di vigilanza da parte di specifici protocolli di sicurezza applicabili ai luoghi di lavoro di cui si tratta.

Su tale ultimo aspetto e su tutto quanto precedentemente osservato sarà comunque fondamentale poter valutare l’interpretazione che verrà fornita dai giudici di merito e di legittimità i quali, ove chiamati a pronunciarsi con riferimento a fattispecie quali quelle in esame, potrebbero anche, in tutto, ovvero, in parte discostarsi dagli orientamenti precedentemente descritti.

La legge n. 77/2020 di conversione del “decreto rilancio” ha introdotto novità di rilievo in ambito lavoristico.

In particolare il legislatore, all’evidente fine di arginare la crisi delle aziende, in difficoltà a seguito dell’emergenza sanitaria con le conseguenti ripercussioni sul lavoro, ha previsto all’art. 43 bis il “contratto di rete con causale di solidarietà”.

Sembra prima facie una nuova tipologia di contratto di rete, già disciplinato dall’art. 3 del d.l. n. 5/2009.

Se tradizionalmente il contratto di rete è quell’accordo in forza del quale due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato, con l’art. 43 bis, come precisato dalla nota dell’I.N.L. n. 468/2020, viene in oggi data alle imprese la “possibilità di stipulare un contratto di rete per favorire il mantenimento dei livelli occupazionali delle imprese appartenenti alle filiere che si sono trovate in particolare difficoltà economica a causa dello stato di crisi o di emergenza”.

Il contratto, come evidenziato dalla rubrica della norma, ha un evidente fine solidaristico perseguendo la finalità di favorire il mantenimento dei livelli occupazionali delle imprese appartenenti alle filiere che si sono trovate in particolare difficoltà economica a causa dello stato di crisi o di emergenza dichiarati con provvedimento delle autorità competenti.

Pertanto, le imprese che stipulano il contratto di rete per lo svolgimento di prestazioni lavorative presso le partecipanti possono ricorrere agli istituti del distacco e della codatorialità, ai sensi dell’art. 30, comma 4 ter, del D.Lgs. n. 276/2003, per perseguire le seguenti finalità:

– impiego di lavoratori delle imprese partecipanti alla rete che sono a rischio di perdita del posto di lavoro;

– inserimento di persone che hanno perso il posto di lavoro per chiusura di attività o per crisi di impresa;

– assunzione di figure professionali necessarie a rilanciare le attività produttive nella fase di uscita dalla crisi.

La normativa introdotta, come segnalato dalla predetta nota dell’I.N.L., qui richiamata, “deroga inoltre alle disposizioni generali in ordine all’obbligo di pubblicità previsto dal comma 4 quater (obbligo di iscrizione del contratto di rete nel registro delle imprese ove hanno sede le imprese contraenti)”.

Il predetto obbligo viene quindi assolto mediante la sottoscrizione del contratto, in deroga alle modalità previste dal comma 4 ter del citato art. 3, ai sensi dell’art. 24 del CAD, “con l’assistenza di organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro rappresentative a livello nazionale presenti nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ai sensi della legge 30 dicembre 1986, n. 936, che siano espressione di interessi generali di una pluralità di categorie e di territori”.

Verranno poi stabilite con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, le modalità di comunicazione, a cura dell’impresa referente, necessarie per dare attuazione alla codatorialità.

Sembra quindi delinearsi un importante sviluppo dell’istituto della Rete e degli istituti lavoristici che detto contratto comporta, avuto riguardo al Distacco e alla Codatorialità.

Va, infatti, ricordato che solo nell’ambito del Contratto di Rete il distacco gode di una presunzione di legittimità tale per cui l’interesse della distaccante (requisito indispensabile per la legittimità del distacco) si presume.

Parimenti, è solo in relazione all’operare di una Rete che il legislatore ha previsto l’istituto della Codatorialità la quale viene generalmente intesa come una sorta di distacco “rafforzato” nel senso che i lavoratori in codatorialità vengono impiegati promiscuamente dalle imprese retiste pur mantenendo la titolarità del rapporto di lavoro del lavoratore interessato in capo ad una di esse.

Ciò considerato, consentire alle imprese di ricorrere all’istituto del distacco e della codatorialità nell’ambito della Rete onde evitare licenziamenti e quindi per favorire l’occupazione costituisce un’importante novità posto che nello stesso tempo l’istituto qui in commento, oltrechè mantenere i livelli occupazionali, consentirà alle imprese di contenere i costi aziendali, avendo la possibilità di mettere a fattor comune il personale.

Pertanto il contratto di Rete, che già costituiva un importante strumento – a mio avviso sottovalutato dalle imprese – per sviluppare il business, dando l’opportunità, attraverso l’aggregazione, di creare sinergie, potrà quindi avere una nuova stagione assumendo oggi un’ulteriore veste e conciliando le esigenze datoriali con quelle dei lavoratori.