Con la sentenza n. 7400 del 7 marzo 2022 la sezione lavoro della Corte di Cassazione, ha stabilito che “non è consentito al datore di lavoro tornare sulle scelte compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero, ovvero ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere, attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali la cui legittimità è subordinata alla individuazione di situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo.

Secondo quanto precisato nell’ambito della medesima sentenza, infatti, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo realizza uno schema in frode alla legge (si considerano tali, ai sensi dell’art. 1344 c.c., i contratti e, più in generale gli atti negoziali, che “costituiscono il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”).

Ne consegue la nullità del licenziamento individuale (nel caso deciso con la sentenza in esame si trattava del licenziamento di un dirigente aziendale, del quale era stata accertata la prossimità temporale e l’identità delle ragioni rispetto ad altra precedente procedura collettiva posta in essere dal medesimo datore di lavoro) ed il conseguente diritto del lavoratore licenziato alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché, in base alla normativa attualmente vigente, al risarcimento del danno, in ragione di un’indennità corrispondente alla retribuzione spettante per il periodo compreso fra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità), con contestuale condanna del datore di lavoro al versamento dei corrispondenti contributi previdenziali e assistenziali.

È legittimo il controllo c.d. difensivo del datore di lavoro sulle strutture informatiche aziendali in uso al lavoratore, a condizione che esso sia occasionato dalla necessità indifferibile di accertare lo stato dei fatti a fronte del sospetto di un comportamento illecito e che detto controllo prescinda dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa essendo, invece, diretto ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti” (Corte di Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 25732/2021) .

La Corte ha, sul punto, evidenziato che il controllo sulle strutture informatiche aziendali in uso al lavoratore è ammissibile solo dove il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto nei confronti del lavoratore e precisato che il controllo ex post non può riferirsi all’esame ed all’analisi di informazioni acquisite, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 Statuto dei lavoratori, prima dell’insorgere del “fondato sospetto”.

Nel caso di specie nella cartella di download del disco fisso di una lavoratrice era presente un file scaricato che aveva propagato un virus che, partito dal computer aziendale in uso alla lavoratrice, aveva iniziato a propagarsi nella rete aziendale, criptando i files all’interno di vari dischi di rete.

La Corte ha evidenziato che per confermare la legittimità del controllo operato dal datore di lavoro occorreva dimostrare che il sospetto della condotta illecita della dipendente (che aveva navigato su internet in orario di lavoro su siti non consentiti) fosse sorto antecedentemente al ritrovamento del file.

Con la sentenza n. 15118 del 2021 la Corte di Cassazione è ritornata sui propri passi rispetto ad altro proprio recentissimo precedente (la sentenza n. 15401 del 2020), pronunciandosi a favore di una definizione più ristretta della nozione di licenziamento collettivo.

Il tema ha rilevanza ai fini della delimitazione del campo di applicazione della normativa prevista per tale particolare tipologia di licenziamenti la quale prevede una serie di oneri procedurali e garanzie per i lavoratori idonei ad incidere in maniera significativa sulle scelte imprenditoriali del datore di lavoro.

Fra tali oneri e garanzie, l’obbligo di comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali e alle associazioni di categoria la propria intenzione di effettuare i licenziamenti, l’obbligo di attenersi a determinati criteri nella scelta dei lavoratori da licenziare, nonché, il diritto di precedenza del lavoratore nella riassunzione presso la medesima azienda entro 6 mesi dal licenziamento.

In sintesi, la sentenza in esame ha affermato che l’art. 24 L. n. 223/1991, secondo il quale la disciplina in materia di licenziamento collettivo si applica ad imprese “che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni” vada interpretata come facente riferimento soltanto a “chiare manifestazioni della volontà di recesso da parte del datore di lavoro”.

Se, con la precedente sentenza n. 15401/2020, la Corte di Cassazione aveva incluso nel novero dei “licenziamenti” da computare ai fini del superamento della soglia che fa scattare l’obbligo di avviare una procedura di licenziamento collettivo, anche quegli atti che vengono comunemente definiti “licenziamenti indiretti” (fra i quali,  i casi di risoluzione consensuale o dimissioni volontarie del lavoratore a fronte di una modifica sostanziale e svantaggiosa delle condizioni di lavoro disposta unilateralmente dal datore di lavoro), con la pronuncia in esame la medesima Corte è quindi tornata ad una definizione del concetto di licenziamento collettivo più restrittiva tesa ad attribuire rilevanza ai soli casi di veri e propri licenziamenti, ovvero, ad ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di manifestazione della volontà unilaterale di recesso da pare datore di lavoro.

Resta da verificare se tale ritorno al precedente orientamento della giurisprudenza rimarrà costante ovvero se le ragioni di adeguamento al diritto dell’Unione europea che hanno determinato l’interpretazione più estensiva dello stesso Giudice di legittimità di cui si è detto, torneranno nella giurisprudenza della Cassazione o in quella di merito nuovamente a prevalere.

I recenti interventi “normativi” in materia di misure di contenimento dell’emergenza epidemiologica da nuovo coronavirus (ovvero, in particolare, il D.L. 7 ottobre 2020, n. 125 ed i DPCM, 7 ottobre 2020, 13 ottobre 2020 e 24 ottobre 2020) non paiono aver apportato alcuna specifica modifica alla disciplina applicabile alle ipotesi di contagio da Covid 19 avvenuto sul luogo di lavoro.

Sia per quanto riguarda la determinazione dei limiti della copertura assicurativa da parte dell’INAIL, sia per quanto riguarda la valutazione della responsabilità del datore di lavoro, il contagio da Covid 19 avvenuto sul luogo di lavoro sarà, quindi, trattato come infortunio sul lavoro e non – come inizialmente ipotizzato da alcuni commentatori che si sono, a vario titolo, occupati della materia – come malattia professionale.

Ciò, anche in ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale – recentemente recepito con specifico riferimento al contagio da Covid 19, anche dall’INAIL con proprie circolari interpretative – secondo il quale, la causa virulenta posta alla base delle malattie infettive e parassitarie, deve ritenersi equiparata alla causa violenta tipica degli infortuni sul lavoro.

Ne consegue l’applicabilità anche al caso di affezioni che dovessero colpire il lavoratore in conseguenza di infezioni da Coronavirus, dell’art. 2087 c.c. ( “l’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro) norma che, al fine di escluderne la  responsabilità per i danni conseguenti ad infortuni sul lavoro, impone al datore di lavoro di dimostrare di aver posto in essere tutti gli accorgimenti (nel caso di specie, si tratterà di quelli previsti dagli appositi “protocolli” allegati ai vari provvedimenti normativi in tema di Covid-19, di cui da ultimo il DPCM 24 ottobre 2020 ha espressamente ribadito la necessità di applicazione) per evitare l’infortunio.

Ciò, evidentemente, ove risulti che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro, circostanza che – nonostante le ben note peculiarità del virus di cui si tratta ed in particolare, la sua facile trasmissibilità e diffusione pandemica – potrà ritenersi presunta solo per particolari tipologie di lavoratori quali (in primis) gli operatori sanitari nonché tutti i lavoratori che si trovino a frequente contatto col pubblico /utenza (ad esempio i lavoratori di front office, cassieri, banconisti, addetti alle pulizie in strutture sanitarie ecc.ecc.).

Resta infine da tener conto di come alcune delle misure di contenimento del contagio confermate, ripristinate ovvero previste ex novo dalla normativa emergenziale di cui sopra ( si pensi ad esempio agli obblighi legati all’uso della mascherina e di distanziamento interpersonale)  incideranno sui doveri di tutela della salute dei propri lavoratori gravanti sul datore di lavoro,  essendo prevedibile che quest’ultimo sarà chiamato a rispondere anche di eventuali inadempimenti agli obblighi di vigilare sul rispetto delle medesime misure da parte dei propri dipendenti, ai sensi dell’art. 2087 cod. civ. a prescindere dalla esplicita previsione di tali doveri di vigilanza da parte di specifici protocolli di sicurezza applicabili ai luoghi di lavoro di cui si tratta.

Su tale ultimo aspetto e su tutto quanto precedentemente osservato sarà comunque fondamentale poter valutare l’interpretazione che verrà fornita dai giudici di merito e di legittimità i quali, ove chiamati a pronunciarsi con riferimento a fattispecie quali quelle in esame, potrebbero anche, in tutto, ovvero, in parte discostarsi dagli orientamenti precedentemente descritti.

La legge n. 77/2020 di conversione del “decreto rilancio” ha introdotto novità di rilievo in ambito lavoristico.

In particolare il legislatore, all’evidente fine di arginare la crisi delle aziende, in difficoltà a seguito dell’emergenza sanitaria con le conseguenti ripercussioni sul lavoro, ha previsto all’art. 43 bis il “contratto di rete con causale di solidarietà”.

Sembra prima facie una nuova tipologia di contratto di rete, già disciplinato dall’art. 3 del d.l. n. 5/2009.

Se tradizionalmente il contratto di rete è quell’accordo in forza del quale due o più imprese si obbligano ad esercitare in comune una o più attività economiche rientranti nei rispettivi oggetti sociali allo scopo di accrescere la reciproca capacità innovativa e la competitività sul mercato, con l’art. 43 bis, come precisato dalla nota dell’I.N.L. n. 468/2020, viene in oggi data alle imprese la “possibilità di stipulare un contratto di rete per favorire il mantenimento dei livelli occupazionali delle imprese appartenenti alle filiere che si sono trovate in particolare difficoltà economica a causa dello stato di crisi o di emergenza”.

Il contratto, come evidenziato dalla rubrica della norma, ha un evidente fine solidaristico perseguendo la finalità di favorire il mantenimento dei livelli occupazionali delle imprese appartenenti alle filiere che si sono trovate in particolare difficoltà economica a causa dello stato di crisi o di emergenza dichiarati con provvedimento delle autorità competenti.

Pertanto, le imprese che stipulano il contratto di rete per lo svolgimento di prestazioni lavorative presso le partecipanti possono ricorrere agli istituti del distacco e della codatorialità, ai sensi dell’art. 30, comma 4 ter, del D.Lgs. n. 276/2003, per perseguire le seguenti finalità:

– impiego di lavoratori delle imprese partecipanti alla rete che sono a rischio di perdita del posto di lavoro;

– inserimento di persone che hanno perso il posto di lavoro per chiusura di attività o per crisi di impresa;

– assunzione di figure professionali necessarie a rilanciare le attività produttive nella fase di uscita dalla crisi.

La normativa introdotta, come segnalato dalla predetta nota dell’I.N.L., qui richiamata, “deroga inoltre alle disposizioni generali in ordine all’obbligo di pubblicità previsto dal comma 4 quater (obbligo di iscrizione del contratto di rete nel registro delle imprese ove hanno sede le imprese contraenti)”.

Il predetto obbligo viene quindi assolto mediante la sottoscrizione del contratto, in deroga alle modalità previste dal comma 4 ter del citato art. 3, ai sensi dell’art. 24 del CAD, “con l’assistenza di organizzazioni di rappresentanza dei datori di lavoro rappresentative a livello nazionale presenti nel Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro ai sensi della legge 30 dicembre 1986, n. 936, che siano espressione di interessi generali di una pluralità di categorie e di territori”.

Verranno poi stabilite con decreto del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro 60 giorni dalla data di entrata in vigore della legge, le modalità di comunicazione, a cura dell’impresa referente, necessarie per dare attuazione alla codatorialità.

Sembra quindi delinearsi un importante sviluppo dell’istituto della Rete e degli istituti lavoristici che detto contratto comporta, avuto riguardo al Distacco e alla Codatorialità.

Va, infatti, ricordato che solo nell’ambito del Contratto di Rete il distacco gode di una presunzione di legittimità tale per cui l’interesse della distaccante (requisito indispensabile per la legittimità del distacco) si presume.

Parimenti, è solo in relazione all’operare di una Rete che il legislatore ha previsto l’istituto della Codatorialità la quale viene generalmente intesa come una sorta di distacco “rafforzato” nel senso che i lavoratori in codatorialità vengono impiegati promiscuamente dalle imprese retiste pur mantenendo la titolarità del rapporto di lavoro del lavoratore interessato in capo ad una di esse.

Ciò considerato, consentire alle imprese di ricorrere all’istituto del distacco e della codatorialità nell’ambito della Rete onde evitare licenziamenti e quindi per favorire l’occupazione costituisce un’importante novità posto che nello stesso tempo l’istituto qui in commento, oltrechè mantenere i livelli occupazionali, consentirà alle imprese di contenere i costi aziendali, avendo la possibilità di mettere a fattor comune il personale.

Pertanto il contratto di Rete, che già costituiva un importante strumento – a mio avviso sottovalutato dalle imprese – per sviluppare il business, dando l’opportunità, attraverso l’aggregazione, di creare sinergie, potrà quindi avere una nuova stagione assumendo oggi un’ulteriore veste e conciliando le esigenze datoriali con quelle dei lavoratori.

L’art. 3 del Decreto legge n. 52/2020, entrato in vigore il 17 giugno 2020 ha disposto la proroga fino al 15 agosto 2020 del temine di presentazione della domanda di emersione di rapporti di lavoro irregolare e di rilascio di permesso di soggiorno temporaneo prevista dal precedente Decreto legge n. 34/2020

Si tratta di misure aventi il dichiarato fine di “garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva” in conseguenza dell’emergenza sanitaria connessa alla diffusione del contagio da -COVID-19 e favorire nel contempo l’emersione e la successiva regolarizzazione di rapporti di lavoro irregolari.

Possono beneficiarne sia lavoratori italiani, sia lavoratori stranieri impiegati nei seguenti settori di attività:

a) agricoltura, allevamento e zootecnia, pesca, acquacoltura e attività connesse;

b) assistenza alla persona per sé stessi o per componenti della propria famiglia, ancorché non conviventi, affetti da patologie o handicap che ne limitino l’autosufficienza;

c) lavoro domestico di sostegno al bisogno familiare.

Come i primi commentatori della norma non hanno mancato di rimarcare, la procedura in esame appare molto complessa e articolata e di difficile attuazione dovendosi realizzare attraverso il coordinamento di diversi soggetti amministrativi ed in un tempo tecnico relativamente ristretto.

Vi è poi una particolare complessità nell’allegazione degli elementi di prova rispetto ai requisiti per beneficiare della sanatoria ed in particolare per quanto riguarda la presenza continuativa sul territorio nazionale del cittadino straniero alla data dell’8 marzo 2020 e l’aver esercitato attività lavorativa nei settori individuati.

Appare infine del tutto evidente come nonostante il dichiarato fine di “garantire livelli adeguati di tutela della salute individuale e collettiva in conseguenza della contingente ed eccezionale emergenza sanitaria connessa alla calamità derivante dalla diffusione del contagio da COVID-19”, le disposizioni in commento abbiano del tutto omesso di far riferimento a concrete misure di contrasto alla diffusione del virus, che possano essere di ausilio ai datori di lavori per poter adempiere correttamente a gravosi obblighi sugli stessi gravanti in tema di tutela della salute e della sicurezza dei propri lavoratori.

Sono previste nuove forme di tutela per fronteggiare gli effetti dell’emergenza Corona Virus per colf, badanti e baby sitters.

In particolare, in base alle ultime notizie diffuse, il decreto atteso entro la fine di aprile dovrebbe prevedere un bonus di importo fino a 400 euro per i lavoratori rientranti nel settore in esame che siano stati sospesi dal servizio, licenziati, ovvero siano in malattia o quarantena.

Per colf, badanti e baby sitter si tratterebbe di una prima concreta forma di tutela, considerato che i medesimi lavoratori sono stati espressamente esclusi dall’elenco dei possibili beneficiari della Cassa integrazione guadagni in deroga, prevista dal precedente decreto c.d. “cura Italia”.

Quanto ai provvedimenti adottabili dai datori di lavoro per fronteggiare le esigenze correlate alla emergenza sanitaria in corso, in applicazione della normativa attualmente vigente, ricordiamo in estrema sintesi che:

– l’attività lavorativa di colf, badanti e baby sitter può essere sospesa;

– i medesimi lavoratori possono fruire di un periodo di ferie, ovvero, ove concordato per iscritto con il lavoratore, di un periodo di assenza dal lavoro non retribuita;

– permane la facoltà di licenziare il lavoratore, seppure con obbligo di preavviso, non applicandosi al settore in esame il c.d. blocco dei licenziamenti disposto per altre categorie di lavoratori;

-colf, badanti e baby sitter possono continuare a svolgere la propria attività lavorativa certificando il proprio spostamento mediante la compilazione dell’apposito modulo ove richiesti dalle autorità di pubblica sicurezza.

Con il decreto Cura Italia sono stati estesi a tutti il territorio nazionale gli ammortizzatori sociali avuto riguardo alla Cassa Integrazione ordinaria con causale Covid19, l’assegno ordinario e la cassa in deroga per 9 settimane per tutti i lavoratori che risultano in forza al 23 febbraio 2020 ovvero assunti nel periodo dal 23 settembre 2020 al 17 marzo 2020 (per effetto del Decreto legge n. 23/2020) con modalità di pagamento diretto da parte dell’INPS: tali misure di sostegno al reddito integrano quelle già previste dal Decreto n. 9/2020. La CIGD è riservata ai datori di lavoro non rientranti nel campo di applicazione della CIGO, del FIS o dei Fondi di solidarietà e che quindi accedono esclusivamente alla cassa integrazione guadagni straordinaria.

In linea generale va osservato che la decretazione emergenziale ha agevolato il ricorso agli ammortizzatori sociali nella “zona rossa” (Comuni di Bertonico, Casalpusterlengo, Castelgerundo, Castiglione D’Adda, Codogno, Fombio, Maleo, San Fiorano, Somaglia, Terranova dei Passerini e Vò) e nella “zona gialla” (Lombardia, Veneto ed Emilia-Romagna), disponendo, tra l’altro, con il decreto n. 18/2020 (c.d. Decreto Cura Italia) l’estensione della Cigd all’intero territorio nazionale, a tutti i dipendenti, di tutti i settori produttivi. I datori di lavoro, comprese le aziende con meno di 5 dipendenti, che sospendono o riducono l’attività a seguito dell’emergenza epidemiologica, possono ricorrere alla Cigd con la nuova causale “COVID-19” per la durata massima di 9 settimane.

Per quanto riguarda la CIGO e l’assegno ordinario, tali trattamenti spettano ai datori di lavoro che sospendano o riducano l’attività lavorativa a causa dell’emergenza epidemiologica da Covid 19.

Il Decreto agevola i suddetti trattamenti dispensando i datori di lavoro:

a) dal procedimento di informazione sindacale di cui all’art. 14 del D. lgs n. 148/2015 prevedendo tuttavia l’obbligatorietà dell’informazione, consultazione ed esame congiunto entro i tre giorni successivi a quello della richiesta;

b) dal rispetto dei limiti temporali normalmente previsti per le domande;

c) dal pagamento del contributo addizionale.

Per quanto riguarda i destinatari, gli stessi sono sia i lavoratori in forza alla data del 23 febbraio 2020, sia i lavoratori assunti entro il 17 marzo 2020 per effetto del Decreto legge n. 23/2020 (c.d. Decreto liquidità), non essendo previsto il requisito di anzianità.

Dal punto di vista temporale è prevista una durata massima di 9 settimane (con decorrenza dal 23 febbraio 2020) e, comunque, entro il mese di agosto 2020, dovendo la domanda essere necessariamente presentata entro agosto 2020.

E’ previsto il pagamento diretto da parte dell’Inps.

Di particolare interesse la disciplina di cui all’art. 20 del Decreto legge n. 18/2020 in ordine al rapporto tra integrazione salariale straordinaria e ammortizzatori sociali “emergenziali”, prevedendo che i datori di lavoro che abbiano già in corso un trattamento di integrazione salariale straordinario possono presentare domanda di trattamento ordinario per un periodo non superiore a 9 settimane con la causale Covid -19, essendo tale trattamento subordinato alla sospensione degli effetti della concessione della cassa integrazione straordinaria.

Analogamente, l’art. 21 del Decreto Cura Italia introduce, per i datori di lavoro iscritti al Fondo di integrazione salariale che hanno già in corso un assegno di solidarietà, la possibilità di presentare domanda di assegno ordinario per un periodo non superiore a 9 settimane, sospendendo e sostituendo il trattamento in questione l’assegno di solidarietà già in corso.

In disparte i trattamenti previsti per quelle Aziende che sono soggette a CIGO e assegno ordinario, alle altre aziende del settore privato (indipendentemente dal numero di dipendenti in forza ed eccettuati i datori di lavoro domestici) prive di tutela è, invece, concessa la cassa integrazione in deroga.

Ciò, previa stipula di un accordo che può essere concluso anche in via telematica con le organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale per i datori di lavoro con la sola esenzione dei datori di lavoro che occupano fino a 5 dipendenti.

I trattamenti di cassa integrazione salariale in deroga possono essere chiesti alle Regioni e alle Province Autonome per analoga durata a quella prevista per gli ammortizzatori sopra analizzati e per i medesimi lavoratori destinatari, venendo concessi con decreto dei predetti Enti locali, da trasmettere all’INPS in modalità telematica entro 48 ore dall’adozione, unitamente alla lista dei beneficiari.

Diversamente, nel caso di imprese “multilocalizzate” il Ministero del lavoro, di concerto con il Ministero dell’Economia e delle Finanze, con Decreto 24 marzo 2020, ha stabilito che nel caso di crisi che coinvolgano unità produttive del medesimo datore di lavoro site in 5 o più Regioni o Province Autonome sul territorio nazionale, ai fini del coordinamento delle relative procedure, il trattamento di Cigd è riconosciuto dal Ministero del lavoro e delle politiche sociali, per conto delle Regioni interessate.

Infine è stabilito dal D.l n. 18/2020 che la CIGD è aggiuntiva rispetto ai periodi di cassa in deroga previsti inizialmente dal D.l. 9/2020: le Regioni possono autorizzare, con un unico provvedimento di concessione, un periodo complessivamente non superiore alle 13 settimane.

Anche nel caso della CIGD è competente l’INPS per l’erogazione delle prestazioni con la modalità di pagamento diretto, essendo riconosciuta ai lavoratori la contribuzione figurativa.

Da segnalare che l’Inps con il messaggio n. 1287/2020 ha precisato che sono esclusi dalla CIGD i datori di lavoro rientranti nel campo di applicazione della CIGO, del FIS o dei Fondi di solidarietà, essendo altresì successivamente intervento sull’argomento il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, con la Circolare n. 8/2020, precisando che possono usufruire della Cassa in deroga le imprese che accedono esclusivamente alla cassa integrazione guadagni straordinaria.

Con la Circolare n. 8 testé menzionata, Il Ministero del lavoro ha, inoltre, definito le prime indicazioni interpretative e operative relative ai criteri per l’accesso ai trattamenti di integrazione salariale previsti per l’emergenza epidemiologica COVID-19.

E’, infine, stata emanata la Circolare INPS n. 47/2020 illustrativa delle misure a sostegno del reddito passate in rassegna e dell’iter concessorio, mentre con il messaggio n. 1508 del 6 aprile 2020, l’INPS ha comunicato la semplificazione delle modalità di gestione e compilazione del modello “IG Str Aut” (codice “SR41”), contenente i dati per il pagamento diretto ai lavoratori delle integrazioni salariali, disponendo l’abolizione dell’obbligo di firma da parte del lavoratore del modello cod. “SR41”.

Con Nota n. 89 del 13.4.2020 (che trovate nel link di seguito http://www.reteambiente.it/repository/normativa/37053_nota_inl_13_3_2020_89.pdf), l’Ispettorato Nazionale del Lavoro è intervenuto sulle richieste di chiarimenti in ordine agli adempimenti in materia di sicurezza e salute riconducibili all’emergenza Covid-19, sotto il profilo della valutazione dei rischi e dell’eventuale modifica del DVR.

L’Ispettorato del Lavoro, pur ritenendo a stretto rigore il datore di lavoro non tenuto all’aggiornamento del DVR nei casi in cui il rischio non sia riconducibile all’attività e ai cicli di lavorazione (rischio professionale), ne ha tuttavia consigliato l’aggiornamento, così da formalizzare l’attenzione posta dall’azienda al rischio di contagio, attraverso la creazione di un’appendice al Documento di Valutazione dei Rischi (DVR).

Questa integrazione dovrà attestare l’adozione di un piano di misure di carattere tecnico, organizzativo e procedurale finalizzato alla riduzione del rischio di contagio COVID-19.

Data la natura squisitamente medico-sanitaria, l’Ispettorato ha suggerito che le misure vengano individuate e attuate con il supporto del Medico competente oltre che con la consulenza del RSPP e con la consultazione del RLS.

 

Il documento, caldeggiato dai Ministeri competenti e la cui attuazione è favorita dal Governo, contiene linee guida condivise tra le Parti Sociali – tutt’ora attuali – per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio.

Il Protocollo riporta utili indicazioni e raccomandazioni per la prosecuzione e il riavvio delle attività delle imprese con riguardo, tra gli altri temi, a: i) modalità e contenuti dell’informazione da assicurare ai lavoratori e ai terzi che accedano all’azienda; ii) modalità di accesso all’azienda, differenziate per lavoratori, fornitori, clienti; iii) pulizia e sanificazione dell’azienda e precauzioni di igiene personale; iv) dispositivi di protezione individuale e modalità di utilizzo degli stessi; v) gestione degli spazi comuni e organizzazione aziendale; vi) modalità di gestione di persone “sintomatiche” in azienda.

Le indicazioni fornite dal Protocollo in materia di trattamento dei dati personali appaiono in linea con quanto raccomandato dal Comitato europeo per la protezione dei dati (EDPB) nella successiva dichiarazione adottata in data 19.3.2020.

Il Protocollo integrale è consultabile all’indirizzo: http://www.governo.it/sites/new.governo.it/files/protocollo_condiviso_20200314.pdf