Per accogliere la domanda di accertamento della nullità del licenziamento in quanto fondato su motivo illecito, occorre che l’intento ritorsivo datoriale abbia avuto efficacia determinativa esclusiva della volontà di recedere dal rapporto di lavoro, anche rispetto ad altri fatti rilevanti ai fini della configurazione di una giusta causa o di un giustificato motivo di recesso”.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la recente Ordinanza n. 21465 del 6 luglio 2022, con la quale la medesima Corte ha anche avuto modo di precisare che:

dal punto di vista probatorio l’onere ricade sul lavoratore in base alla regola generale di cui all’art. 2697 c.c., non operando l’art. 5 l. n. 604 del 1966; esso può essere assolto anche mediante presunzioni (Cass. n. 23583 del 2019), con la dimostrazione di elementi specifici, tali da far ritenere con sufficiente certezza il motivo ritorsivo”.

In sintesi la Corte di Cassazione ha ribadito che il licenziamento ritorsivo (intimato per motivi illeciti, generalmente diversi da quelli formalmente indicati) può essere rilevato dal giudice e dichiarato nullo solo laddove l’intento ritorsivo del datore di lavoro sia stato il motivo determinante della volontà di recesso; il relativo onere della prova è a carico del lavoratore licenziato che dovrà dimostrare l’esistenza ei circostanze specifiche tali da far desumere il motivo ritorsivo.

Per completezza, ricordiamo che, ove ritenuto sussistente, il licenziamento sarà dichiarato nullo a prescindere dall’eventuale esistenza di una giusta causa o giustificato motivo di licenziamento.

Dalla nullità del licenziamento deriverà, inoltre, l’applicazione dell’art. 2 del D.Lgs. n. 23/2015 (cd. Jobs Act) con conseguente diritto del lavoratore alla reintegrazione nel posto di lavoro (ovvero, al pagamento di un’indennità corrispondente a 15 mensilità dell’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del tfr) ed al risarcimento del danno subito per il licenziamento in ragione di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto, corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione.

Con la sentenza n. 15118 del 2021 la Corte di Cassazione è ritornata sui propri passi rispetto ad altro proprio recentissimo precedente (la sentenza n. 15401 del 2020), pronunciandosi a favore di una definizione più ristretta della nozione di licenziamento collettivo.

Il tema ha rilevanza ai fini della delimitazione del campo di applicazione della normativa prevista per tale particolare tipologia di licenziamenti la quale prevede una serie di oneri procedurali e garanzie per i lavoratori idonei ad incidere in maniera significativa sulle scelte imprenditoriali del datore di lavoro.

Fra tali oneri e garanzie, l’obbligo di comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali e alle associazioni di categoria la propria intenzione di effettuare i licenziamenti, l’obbligo di attenersi a determinati criteri nella scelta dei lavoratori da licenziare, nonché, il diritto di precedenza del lavoratore nella riassunzione presso la medesima azienda entro 6 mesi dal licenziamento.

In sintesi, la sentenza in esame ha affermato che l’art. 24 L. n. 223/1991, secondo il quale la disciplina in materia di licenziamento collettivo si applica ad imprese “che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni” vada interpretata come facente riferimento soltanto a “chiare manifestazioni della volontà di recesso da parte del datore di lavoro”.

Se, con la precedente sentenza n. 15401/2020, la Corte di Cassazione aveva incluso nel novero dei “licenziamenti” da computare ai fini del superamento della soglia che fa scattare l’obbligo di avviare una procedura di licenziamento collettivo, anche quegli atti che vengono comunemente definiti “licenziamenti indiretti” (fra i quali,  i casi di risoluzione consensuale o dimissioni volontarie del lavoratore a fronte di una modifica sostanziale e svantaggiosa delle condizioni di lavoro disposta unilateralmente dal datore di lavoro), con la pronuncia in esame la medesima Corte è quindi tornata ad una definizione del concetto di licenziamento collettivo più restrittiva tesa ad attribuire rilevanza ai soli casi di veri e propri licenziamenti, ovvero, ad ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di manifestazione della volontà unilaterale di recesso da pare datore di lavoro.

Resta da verificare se tale ritorno al precedente orientamento della giurisprudenza rimarrà costante ovvero se le ragioni di adeguamento al diritto dell’Unione europea che hanno determinato l’interpretazione più estensiva dello stesso Giudice di legittimità di cui si è detto, torneranno nella giurisprudenza della Cassazione o in quella di merito nuovamente a prevalere.

Con sentenza n. 509 delll’11.1.2018 la Cassazione torna ad affrontare il tema dell’abuso dei diritti da parte dei lavoratori e precisa che in tema di congedo parentale l’art. 32, comma 1, lett. b), del d.lgs. n. 151 del 2001, nel prevedere che il lavoratore possa astenersi dal lavoro nei primi otto anni di vita del figlio, percependo dall’ente previdenziale un’indennità commisurata ad una parte della retribuzione, configura un diritto potestativo che il padre-lavoratore può esercitare nei confronti del datore di lavoro, nonché dell’ente tenuto all’erogazione dell’indennità, onde garantire con la propria presenza il soddisfacimento dei bisogni affettivi del bambino e della sua esigenza di un pieno inserimento nella famiglia. Continua a leggere

Con sentenza n. 25201 del 7.12.2016 la Cassazione torna ad affrontare il tema dei confini del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, esaminando puntualmente i due contrastanti orientamenti formatisi all’interno della stessa Cassazione e aderendo – in aperto contrasto con la maggioritaria giurisprudenza che ritiene legittimo solo il licenziamento per giustificato motivo oggettivo fondato sul riassetto organizzativo dell’azienda da ricondursi alla necessità di far fronte a situazioni sfavorevoli e perduranti, ovvero sulla necessità di far fronte a spese di carattere straordinario – al minoritario orientamento della stessa Cassazione secondo cui ““le ragioni inerenti l’attività produttiva di cui all’art. 3 della I. n. 604 del 1966 possono derivare anche “da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti””. Continua a leggere

La Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con sentenza n. 4315 depositata il 20.2.2017, ha ritenuto legittimo il licenziamento di una dipendente che ha violato in maniera reiterata gli obblighi di diligenza e di correttezza, nell’esecuzione della prestazione lavorativa, anche se affetta da invalidità. Continua a leggere

Con sentenza n. 22798 del 9.11.2016 la Cassazione interviene ancora una volta sul tema del repechage, argomento “caldo” degli ultimi mesi in relazione al quale si registrano diverse pronunce, anche in contrasto tra loro, che, affrontando la problematica qui in esame sotto il profilo degli oneri di allegazione e prova, con sentenze che costituiscono un vero e proprio revirement (V. Cass. 5592/2016), addossano al datore di lavoro, sia l’onere di provare di non poter ricollocare il lavoratore in esubero, sia il relativo onere di allegazione. Continua a leggere