La Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che in caso di azione risarcitoria ex art. 2087, cod. civ., per i danni cagionati dallo svolgimento di un’attività eccedente la ragionevole tollerabilità, ad essere oggetto di censura da parte del lavoratore, al quale sia stato richiesto un lavoro eccedente siffatta tollerabilità, per eccessiva durata o per eccessiva onerosità dei ritmi, è l’inesatto adempimento altrui rispetto all’obbligo di sicurezza previsto dal menzionato articolo. Sul lavoratore grava, quindi, l’onere di allegare rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio (ad es. modalità qualitative improprie, per ritmi o quantità di produzione insostenibili etc., o secondo misure temporali eccedenti i limiti previsti dalla normativa o comunque in misura irragionevole), spettando invece al datore dimostrare che i carichi di lavoro erano normali, congrui e tollerabili o che ricorreva una diversa causa che rendeva l’accaduto a sé non imputabile.
Nel caso di specie la Corte di Cassazione ha cassato con rinvio la sentenza impugnata in quanto la Corte di Appello, nel confermare la pronuncia di primo grado di rigetto della domanda di condanna al risarcimento del danno conseguente ad un infarto del miocardio occorso al ricorrente a causa del sottodimensionamento dell’organico che lo aveva costretto per molti anni ad intollerabili ritmi e turni di lavoro, aveva escluso la responsabilità del datore di lavoro, in quanto il lavoratore non aveva fornito sufficiente prova, il cui onere era su di lui ricadente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di quelle misure di sicurezza, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall’esperienza e dalla tecnica, necessarie ad evitare il danno ed in concreto esigibili con riferimento agli standard di sicurezza suggeriti dalle conoscenze del tempo, e di normale adozione nel settore.
Corte di Cassazione, Sez. Lav. Ordinanza 28 febbraio 2023, n. 6008.
La risoluzione consensuale del rapporto di lavoro o la richiesta di dimissioni presentate dalla lavoratrice, durante il periodo di gravidanza, e dalla lavoratrice o dal lavoratore durante i primi tre anni di vita del bambino o nei primi tre anni di accoglienza del minore adottato o in affidamento (nel caso di adozione internazionale il termine di tre anni decorre dalla comunicazione della proposta di incontro con il minore adottando, ovvero dalla comunicazione dell’invito a recarsi all’estero per ricevere la proposta di abbinamento) devono essere convalidate dal Servizio ispettivo del Ministero del lavoro e delle politiche sociali competente per territorio.
Ai sensi del IV comma dell’art 55 del Decreto legislativo 26/03/2001 n. 151 (c.d. Testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela e sostegno della maternità e della paternità), in assenza di tale convalida la risoluzione del rapporto di lavoro è inefficace.
La disciplina in esame è stata recentemente oggetto di interpretazione da parte della Corte di Cassazione, la quale, con Ordinanza 23 febbraio 2023, n. 5598, ha stabilito che le dimissioni rassegnate dalla lavoratrice madre nel periodo protetto previsto dall’art. 55 del Decreto legislativo n. 151/2021, in assenza di convalida da parte dai Servizi ispettivi, restano inefficaci anche dopo il venir meno di tale protezione.
Come i Giudici della Corte di Cassazione hanno avuto modo di precisare, la ratio che sorregge la disposizione di cui si tratta è infatti quella di salvaguardare la genuinità e la spontaneità della volontà dismissiva espressa dalla lavoratrice o dal lavoratore in un periodo particolarmente delicato, corrispondente alla gravidanza ed ai primi anni di vita del bambino, contro eventuali abusi datoriali volti a viziare o condizionare in vario modo la formazione della volontà. Per questa ragione il legislatore ha inteso affidare ai Servizi ispettivi ministeriali la verifica della effettività della volontà di risolvere il rapporto, condizionando alla convalida l’efficacia del negozio di recesso.
Secondo quanto affermato nella sentenza in esame, quindi, “risulta del tutto evidente che la specifica finalità antiabusiva perseguita dalla norma in tema di convalida risulterebbe in larga parte vanificata ove si accedesse all’opzione per la quale una volta trascorso il periodo protetto non sarebbe necessaria la convalida da parte dei servizi ispettivi ministeriali per il prodursi della efficacia del negozio di recesso; il legislatore ha, infatti, inteso tutelare una volta per tutte la genuinità e spontaneità della volontà del dipendente con riferimento al momento delle dimissioni ed in relazione a tale elemento temporale la cessazione del periodo protetto costituisce un fattore neutro, inidoneo ad incidere, ora per allora, sulla modalità di formazione della volontà dismissiva espressa dal dipendente”.
Si definiscono infezioni “nosocomiali” le infezioni contratte dai pazienti durante il soggiorno in ospedale o altra struttura sanitaria.
La materia è stata recentemente oggetto di una importante pronuncia della Corte di Cassazione (Sentenza n. 6386 del 3 marzo 2023) con la quale è stato affermato che, in presenza di tale tipologia di infezione, la prova del collegamento causale tra il comportamento dei sanitari e l’evento dannoso deve essere fornita dal danneggiato in termini soltanto probabilistici.
Questo significa che chi agisce per il risarcimento dei danni deve dimostrare che il comportamento colposo dei sanitari ha causato l’evento lesivo con un grado di probabilità più elevato rispetto ad altre cause possibili, senza che sia necessario fornire la prova di cui si tratta, in termini di assoluta certezza.
Sempre secondo quanto affermato nella decisione in commento, inoltre, a fronte della prova presuntiva, fornita dal paziente, della contrazione dell’infezione in ambito ospedaliero, la struttura potrà sempre fornire la prova liberatoria di aver adottato tutte le misure utili alla prevenzione delle stesse, consistente nell’indicazione:
a) dei protocolli relativi alla disinfezione, disinfestazione e sterilizzazione di ambienti e materiali;
b) delle modalità di raccolta, lavaggio e disinfezione della biancheria;
c) delle forme di smaltimento dei rifiuti solidi e dei liquami;
d) delle caratteristiche della mensa e degli strumenti di distribuzione di cibi e bevande;
e) delle modalità di preparazione, conservazione ed uso dei disinfettanti;
f) della qualità dell’aria e degli impianti di condizionamento;
g) dell’avvenuta attivazione di un sistema di sorveglianza e di notifica;
h) dei criteri di controllo e di limitazione dell’accesso ai visitatori;
i) delle procedure di controllo degli infortuni e della malattie del personale e delle profilassi vaccinali;
j) del rapporto numerico tra personale e degenti;
k) della sorveglianza basata sui dati microbiologici di laboratorio;
l) della redazione di un “report” da parte delle direzioni dei reparti, da comunicarsi alle direzioni sanitarie al fine di monitorare i germi patogeni-sentinella;
m) dell’orario dell’effettiva esecuzione delle attività di prevenzione del rischio.
Accertata l’esistenza di sistemi di prevenzione del rischio e della loro attuazione in base ai parametri precedentemente descritti si tratterà poi di passare alla verifica della tempestività della diagnosi d’infezione di cui si discute e della appropriatezza delle cure conseguentemente apprestate.
È evidente tuttavia che il modello delineato dalla Corte di Cassazione rappresenta un accertamento da svolgersi per gradi: il mancato superamento del vaglio inziale circa la concreta attuazione di sistemi di prevenzione e controllo e contenimento del rischio determinerà, infatti, automaticamente, la responsabilità risarcitoria della struttura sanitaria interessata.
La Suprema Corte, con la sentenza 18 gennaio 2023, n. 1417, ha precisato che il contratto di viaggio vacanza “tutto compreso” (cd. pacchetto turistico) deve essere tenuto distinto dal contratto di organizzazione o di intermediazione di viaggio, essendo caratterizzato sia per la “finalità turistica” che sotto il profilo soggettivo ed oggettivo.
Nel secondo, infatti, le prestazioni e i servizi si profilano come separati, laddove nel “pacchetto turistico” gli elementi costitutivi del trasporto, dell’alloggio e dei servizi turistici agli stessi non accessori, combinandosi in misura prefissata, assumono rilievo non già singolarmente, bensì nella loro unitarietà funzionale, dando luogo ad una prestazione complessa, volta a soddisfare la “finalità turistica” che integra la causa concreta del contratto; con la conseguenza che l’organizzatore e il venditore del pacchetto turistico assumono, nell’ambito del rischio di impresa, un’obbligazione di risultato nei confronti dell’acquirente, essendo tenuti a risarcire qualsiasi danno da questi subito a causa della fruizione del pacchetto turistico e rispondono solidalmente ogni qualvolta sia ravvisabile una responsabilità diretta del prestatore di servizi nei confronti del consumatore per il servizio reso (o non reso).
In applicazione di tale principio, la Suprema Corte ha cassato la sentenza impugnata che aveva escluso la responsabilità solidale dell’Agenzia di viaggi e del Tour operator, in relazione ai danni patiti dagli acquirenti di un “pacchetto turistico” in conseguenza dell’intossicazione alimentare riportata all’interno del villaggio turistico, ritenendo ciascuno responsabile soltanto degli obblighi rispettivamente e personalmente assunti nei confronti del turista.