Con la sentenza n.  9857 pubblicata in data 28.3.2022 la Corte di Cassazione ritorna sul dibattuto tema del danno derivante dalla perdita di un rapporto parentale e sulla distinzione, anche al fine della liquidazione, di tale voce di danno dal danno biologico.

In particolare, la Suprema Corte precisa che il danno da perdita del rapporto parentale è destinato a tradursi nella duplice dimensione del c.d. danno morale ossia della sofferenza puramente interiore patita per la perdita affettiva riscontrabile sul piano dell’afflizione e della compromissione dell’ordinario equilibrio emotivo nonché del danno rappresentato dalla modificazione delle attività della vita quotidiana e degli eventuali aspetti dinamico-relazionali in conseguenza di tale perdita affettiva.

Il danno derivante dalla perdita del rapporto parentale, nella sua duplice dimensione, deve, dunque, essere inteso quale conseguenza riferibile alla compromissione della conservazione dell’integrità del proprio nucleo familiare e/o affettivo.

Il danno biologico che deriva dalla perdita di un congiunto, invece, consiste nella compromissione del diverso interesse legato alla conservazione dell’integrità della propria salute tanto da trovare tutela costituzione nell’art. 32 della Costituzione.

Secondo la Suprema Corte, pertanto, nell’ipotesi di perdita di un congiunto e/o parente, va liquidato il danno sotto il profilo della perdita del rapporto parentale sia il danno biologico atteso che la liquidazione del danno biologico non costituisce una duplicazione della prima liquidazione, trattandosi di voci di danno del tutto diverse tra loro.

Nelle comunicazioni tra imprenditori è da considerare pienamente efficace la disdetta dal contratto di locazione inviata a mezzo PEC (Posta Elettronica Certificata) senza che occorra, da parte del destinatario, una previa dichiarazione di disponibilità ad accettarne l’utilizzo in sostituzione all’invio a mezzo raccomandata con ricevuta di ritorno.

Lo ha stabilito la Corte di Cassazione con l’ordinanza n 11808 del 12 aprile 2022 così ribadendo il principio dell’alternatività fra domicilio “fisico” e “digitale” che la stessa Corte di Cassazione aveva già ripetutamente affermato con riferimento però alla sola notificazione di atti processuali.

La decisione in esame – riferibile evidentemente, non solo alla disdetta dal contratto di locazione bensì a tutti gli atti c.d. recettizi, ovvero che per loro natura sono destinati a produrre effetto per il solo fatto di essere pervenuti al domicilio del destinatario – muove dal presupposto che l’art. 48, comma 2 del Dlgs. n. 82 del 2005 ha equiparato la raccomandata postale alla trasmissione del documento via PEC “salvo che la legge non disponga altrimenti”, mentre l’art. 16 commi 6 e 9 del Dlgs n. 185 del 2008 nell’imporre a tutte le imprese un indirizzo di posta elettronica certificata ha previsto che le comunicazioni fra imprese possano essere validamente ed efficacemente inviate con tale ultimo strumento.

Ne consegue, secondo la Corte di Cassazione, la piena alternatività dell’invio a mezzo PEC a quello mediante lettera raccomandata e ciò, anche laddove per legge ovvero per volontà contrattuale delle parti, si richieda espressamente che le comunicazioni debbano avvenire mediante lettera raccomandata con ricevuta di ritorno.

Come espressamente affermato dalla Corte di Cassazione la pronuncia in esame riguarda un’ipotesi di comunicazione fra imprenditori inerente l’attività d’impresa (si trattava infatti di locazione commerciale).

È da presumere, tuttavia, che le considerazioni precedentemente esaminate possano essere estese anche ad altri soggetti per i quali vige analogo obbligo di dotarsi di un indirizzo PEC (ad esempio taluni professionisti), sempreché, la comunicazione di cui si discute riguardi l’ambito di attività per il quale l’obbligo è previsto e non altre sfere personali o famigliari del soggetto obbligato, relativamente alle quali l’ equiparazione domicilio “fisico” e “digitale” stabilita dalla Corte di Cassazione nella ordinanza in esame allo stato non può dirsi sicuramente altrettanto pacifica.

Per il lavoratore che si appropri illegittimamente dei dati aziendali sono configurabili quattro diversi profili di rischio: il rischio disciplinare, quello civilistico, quello penalistico e quello per violazione della privacy.

Disciplinare: il lavoratore che “ruba” i dati aziendali commette, in primo luogo, un illecito disciplinare, disattendendo gli obblighi connessi al rapporto di lavoro dipendente. Nel rapporto di lavoro l’accesso alle informazioni aziendali è consentito solo per lo svolgimento delle mansioni lavorative e nei limiti delle stesse. Il lavoratore che acquisisce e utilizza i dati aziendali per scopi diversi dallo svolgimento delle mansioni lavorative commette, quindi, un illecito disciplinare, tale da determinare, nei casi più gravi, la sanzione della risoluzione del rapporto di lavoro.

Civilistico: dall’inadempimento agli obblighi connessi al contratto di lavoro può conseguire la richiesta di risarcimento dei danni subiti dal datore di lavoro per effetto della condotta del lavoratore, in termini sia di danno emergente, sia di lucro cessante. Ove, poi, con l’appropriazione e l’utilizzo dei dati il lavoratore abbia posto in essere manovre concorrenziali fraudolente, potrà essere contestato allo stesso il compimento di atti di concorrenza sleale, con le inerenti conseguenze risarcitorie.

Penale: il lavoratore che si appropri e utilizzi illegittimamente dati aziendali può porre essere condotte di rilievo penale. Tra i reati in astratto configurabili in capo al lavoratore vi sono, tra l’altro, i reati di: i) spionaggio industriale; ii) accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico; iii) trattamento illecito di dati; iv) comunicazione e diffusione illecita di dati personali oggetto di trattamento su larga scala; v) di acquisizione fraudolenta di dati personali oggetto di trattamento su larga scala.

Privacy: il lavoratore che “tratti” illecitamente i dati aziendali è soggetto alle sanzioni amministrative del Garante per la violazione degli obblighi previsti dalla disciplina sulla protezione dei dati personali.

Il profilo “privacy”, tuttavia, può rappresentare per il datore di lavoro un’arma a doppio taglio.

Se, infatti, un dipendente asporta dati aziendali che rappresentano anche dati personali (ad esempio la lista anagrafica dei clienti) il fatto che tali dati siano stati trafugati può implicare una cattiva organizzazione aziendale, con conseguente responsabilità anche del datore di lavoro

L’estrazione illecita di dati personali integra, infatti, la fattispecie della “violazione dei dati” (c.d. data breach) di cui agli artt. 33 e 34 Reg. UE 2016/679. Questo obbliga il datore di lavoro ad autodenunciare l’accaduto al Garante della privacy (notificazione del data breach) e a darne notizia (comunicazione) agli interessati.

L’omissione di questi due obblighi comporta l’esposizione a una sanzione pecuniaria irrogata dal Garante della privacy (art. 33, 34 e 83 Regolamento Ue 2016/679). Se, poi, gli interessati sono i clienti dell’azienda il datore potrà incorrere in ulteriori danni all’immagine.

Sotto tale profilo assume, pertanto, importanza fondamentale la predisposizione di un sistema di gestione dei dati che oltre a limitare i rischi di utilizzo improprio degli stessi, contempli specifiche procedure da porre in essere in casi di data breach al fine di arginare immediatamente eventuali violazioni della riservatezza.

Con la sentenza 11 maggio 2022, n. 14947, la Suprema Corte ha cassato con rinvio la sentenza della Corte d’Appello di Lecce del 21 maggio 2019, secondo la quale se il conducente di un veicolo tiene una condotta irrazionale, l’altro conducente può tenere qualunque condotta perché ciò non incide, vale a dire può violare le norme del Codice della Strada senza addebitarsi, nemmeno in termini di concorrenza, alcuna responsabilità. Secondo tale ragionamento, quindi, la condotta irrazionale dell’uno escluderebbe automaticamente che l’altro possa esercitare incidenza sulla dinamica del sinistro, così, in sostanza, equiparandosi l’irrazionalità con l’inevitabilità.

La Suprema Corte ha, in merito, osservato che, se così fosse, la norma governante la responsabilità per scontro tra veicoli – l’art. 2054 c.c., comma 2 – sarebbe (ma invece non lo è, non essendo corretta l’interpretazione che ne offre il giudice d’appello) intrinsecamente illogica dal momento che inserisce la presunzione, “fino a prova contraria”, di avere “ciascuno dei conducenti… concorso ugualmente a produrre il danno”: disposizione che prescinde, con netta evidenza, dalla natura irrazionale/criticabile della condotta di uno dei conducenti nel senso che, anche quando tale censurabile natura sussiste, occorre comunque superare per l’altro conducente la presunzione di concorrenza nella causazione del sinistro.

Nella sentenza in esame, è stato quindi ribadito il consolidato orientamento della Corte Suprema, in ordine alla interpretazione dell’art. 2054 c.c., comma 2, per cui l’accertamento in concreto della responsabilità di uno dei conducenti non supera di per sé la presunzione di colpa concorrente di cui all’art. 2054 c.c., comma 2, rimanendo allo scopo necessario accertare che l’altro conducente si sia pienamente uniformato alle norme sulla circolazione e a quelle di comune prudenza, e abbia comunque fatto il possibile per evitare il sinistro.