Fra le novità introdotte dal recente “Decreto lavoro” (decreto legge n.48/2023), gioca sicuramente un ruolo di rilevo la riforma apportata alla disciplina in tema di contratti a termine.
In sintesi, a partire dal 5 maggio 2023, data di entrata in vigore del Decreto, ferma restando la possibilità di stipulare liberamente contratti a termine di durata inferiore a 12 mesi, è possibile stipulare contratti a termine di durata superiore (vuoi sin dal primo contratto, vuoi per effetto di una successione di contratti ed in ogni casi entro il tetto massimo dei 24 mesi,) allorché, (1) vi sia l’esigenza di sostituzione di un lavoratore, ovvero, (2) si verifichi uno dei casi previsti dai contratti collettivi sottoscritti da organizzazioni sindacali e associazioni datoriali comparativamente più rappresentative.
In assenza di previsioni contenute nei contratti collettivi opera, in via subordinata e fino al 30 aprile 2024, la clausola generale delle “ragioni tecniche, organizzative e produttive”, così come individuate dalle parti al momento della instaurazione del singolo rapporto di lavoro.
L’intenzione del legislatore sembrerebbe essere quella di trovare un compromesso fra l’ampia liberalizzazione dei contratti a termine che era stata realizzata con il “Jobs act” del 2015 e la disciplina decisamente più restrittiva delineata dalla più recente controriforma contenuta nel c.d. “Decreto dignità” del 2018 e dunque fra le diverse istanze sociali che erano alla base di entrambe le riforme.
Nell’attesa di verificare quale evoluzione la normativa in esame potrà avere in sede di concreta applicazione ed interpretazione da parte della giurisprudenza, si segnala che la materia è anche oggetto di una risalente Direttiva europea del 1999 la quale così come avvenuto vigente la precedente disciplina nazionale, è destinata ad incidere in maniera significativa sui limiti ai poteri attribuiti alla libertà contrattuale dalla riforma in esame.

Il Tribunale di Napoli, con la sentenza n. 4111 del 20 aprile 2023, ha ribadito il principio sancito dall’art. 1135 c.c., a tenore del quale “L’amministratore non può ordinare lavori di manutenzione straordinaria, salvo che rivestano carattere urgente, ma in questo caso deve riferirne nella prima assemblea”.
Poiché è compito dell’amministratore garantire il buono stato e la sicurezza delle strutture dell’edificio condominiale, questi, se ravvisa la necessità di intervenire al fine di evitare danni alle cose o alle persone, è legittimato, o meglio tenuto, ad intervenire tempestivamente. Su questi presupposti, l’amministratore non è responsabile in prima persona per le spese sostenute, in quanto mirate alla tutela dello stabile amministrato.
L’amministratore di condominio può, quindi, autorizzare i lavori straordinari che si presentino come urgenti, con la conseguenza che, qualora si versi in simili circostanze, non sussiste la necessità del preventivo consenso da parte dell’assemblea, poiché l’autorizzazione al compimento dei lavori urgenti non esorbita dai limiti imposti dalla legge al mandato dell’amministratore.
La sentenza del Tribunale di Napoli si inserisce nel solco tracciato dalla Suprema Corte, secondo la quale, nel caso in cui l’amministratore abbia assunto l’iniziativa di compiere opere di manutenzione straordinaria caratterizzate dall’urgenza, ove questa effettivamente ricorra ed egli abbia speso, nei confronti dei terzi, il nome del condominio, quest’ultimo deve ritenersi validamente rappresentato e l’obbligazione è direttamente riferibile alla compagine.

La Corte di Appello di Lecce ha recentemente ribadito la natura del licenziamento per cosiddetto “scarso rendimento” precisando come tale licenziamento costituisca un’ipotesi di recesso del datore di lavoro per notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore, che, a sua volta, si pone come specie della risoluzione per inadempimento di cui agli artt. 1453 e segg. c.c..
Su tale base la Corte ha affermato che, pur non costituendo il mancato raggiungimento di un risultato prefissato di per sé inadempimento, ove siano individuabili dei parametri per accertare se la prestazione sia eseguita con diligenza e professionalità medie, proprie delle mansioni affidate al lavoratore, lo scostamento dai essi può essere segno o indice di non esatta esecuzione della prestazione, sulla scorta di una valutazione complessiva dell’attività resa per un apprezzabile periodo di tempo, tale da giustificare il recesso.
Trattandosi una ipotesi di licenziamento per giustificato motivo soggettivo ex art. 3, legge n. 604/1966, tuttavia, secondo la Corte, spetta al datore di lavoro fornire la prova, sulla scorta della valutazione complessiva dell’attività resa dal lavoratore, di una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente – ed a lui imputabile – in conseguenza dell’enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento tenuto conto della media di attività tra i vari dipendenti ed indipendentemente dal conseguimento di una soglia minima di produzione.
Corte App. Lecce, Sez. L. Sent. 19-04-2023, n. 324

Lo svolgimento di altra attività da parte del dipendente, durante lo stato di malattia, giustifica il licenziamento, oltre che nell’ipotesi in cui tale attività esterna sia, di per sé, sufficiente a far presumere l’inesistenza della malattia, anche nel caso in cui la stessa attività, in relazione alla natura della patologia e delle mansioni svolte, possa pregiudicare o ritardare la guarigione o il rientro in servizio.
L’onere di provare che l’attività extralavorativa di cui si tratta sia potenzialmente idonea a pregiudicare o ritardare il rientro in servizio del dipendente, grava sul datore di lavoro.
È quanto affermato dalla recente sentenza della Corte di Cassazione Cass. Sez. Lav., 12 maggio 2023, n. 12994 in relazione ad una fattispecie nella quale era stato accertato, sulla base di investigazioni private datoriali che il lavoratore, nel periodo di malattia, aveva tenuto comportamenti (di protratta stazione eretta; di guida di auto, scooter o moto; di scarico e carico di scatoloni; di spazzamento del marciapiedi antistante l’esercizio commerciale intestato ai familiari; di ripetuti spostamenti a piedi; di montaggio con altri di un portabagagli sulla propria vettura; di carico e scarico di materiale edile) integranti condotte incaute per inosservanza delle prescrizioni mediche di “riposo e cure” e, così, ostacolato e, comunque, ritardato la guarigione, in violazione dei doveri di correttezza, diligenza e buona fede.
Con la decisione in esame la Cassazione ha rigettato il ricorso, promosso avverso la sentenza del giudice di secondo grado che aveva dichiarato la validità del licenziamento, rilevando come correttamente la Corte d’appello – premesso il principio di diritto di inesistenza di un obbligo del lavoratore in stato di malattia di astenersi da attività, anche lavorative, con essa compatibili, purché con le cautele idonee a non ritardarne la guarigione, nel rispetto dei doveri generali di correttezza e buona fede e degli specifici obblighi contrattuali di diligenza e fedeltà – avesse ritenuto sussistente, nella fattispecie, una giusta causa di licenziamento, essendo accertata la violazione dei suddetti obblighi.