Con una recente sentenza (28.10.2022, n. 9328), la sezione VII del Consiglio di Stato ha chiarito che benchè ai servizi portuali non si applichi la direttiva 2006/123/CE (cd. direttiva Bolkestein), il diritto dell’Unione Europea, ed in particolare la direttiva 2014/25/UE (sulle procedure d’appalto degli enti erogatori nei settori dell’acqua, dell’energia, dei trasporti e dei servizi postali) osta alla proroga automatica delle concessioni dei servizi portuali.

L’attività da diporto esercitata dal concessionario rientra, infatti, nella nozione di servizi portuali, esclusa dall’ambito di applicazione della Bolkestein. Tuttavia, la disciplina europea, nella sua complessità, afferma, comunque, la sussistenza dell’obbligo di gara quale regola generale scaturente dalla scadenza delle concessioni portuali.

A livello nazionale, il D.Lgs. n. 50/2016 individua il proprio ambito applicativo in ragione, da un lato, dell’oggetto della prestazione che deve essere affidata, quindi lavori, servizi e forniture, e, dall’altro lato, dei settori speciali delineati, ricomprendendo anche le attività relative allo sfruttamento di un’area geografica per la messa a disposizione di porti marittimi ai vettori.

In ogni caso, allorquando non si tratti di acquisire un servizio e prevalga la sola concessione del bene pubblico in una tipica manifestazione di contratto attivo, il relativo affidamento avviene comunque nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità, pubblicità, tutela dell’ambiente ed efficienza energetica (art. 4 del d.lgs. n. 50 del 2016).

Essendo l’art. 10, DPR 509/1997, che prevede la possibilità di proroga delle concessioni portuali, norma eccezionale e di stretta interpretazione, è possibile la proroga delle concessioni portuali purché la P.A. si esprima con motivazione rafforzata.

L’art. 10, D.P.R. n. 509/1997, nella parte in cui prevede la possibilità di proroga delle concessioni portuali, attribuisce, infatti, alla P.A. una discrezionalità non solo tecnica -finalizzata all’accertamento dei presupposti indicati dalla norma – ma anche amministrativa, atteso che l’Amministrazione ha il potere di valutare l’opportunità della proroga e la sua rispondenza all’interesse pubblico.

Mentre il rilascio della proroga esige una motivazione rafforzata, il diniego della stessa esige una motivazione semplicemente adeguata, essendo immanenti nell’ordinamento giuridico le ragioni di ordine generale giustificanti la decisione, a fronte dei prevedibili vantaggi scaturenti per l’Amministrazione e la collettività dall’eventuale instaurazione di un nuovo rapporto con un concessionario scelto all’esito di una procedura comparativa.

Con la recente ordinanza n. 29059 del 6 ottobre 2022 la Corte di Cassazione ha fornito un ulteriore importante contributo interpretativo in merito alla definizione di straining, fattispecie di origine giurisprudenziale e priva di alcuna tipizzazione normativa, che si ritiene integrata in presenza di situazioni di stress forzato sul posto di lavoro, in cui la vittima subisce almeno un’azione ostile da parte del datore di lavoro ovvero di altri dipendenti senza, in quest’ultimo caso, che il datore di lavoro intervenga per reprimere, scoraggiare o impedire tali comportamenti.
In sostanza si tratta di una forma attenuata di “mobbing” in cui il comportamento vessatorio del datore di lavoro, pur non presentando quei tratti di frequenza e continuità nel tempo tipici appunto del mobbing, sia comunque idoneo a ledere diritti fondamentali della persona.
Con la sentenza in esame la Corte di Cassazione ha ribadito che sussiste “straining” e, dunque, responsabilità del datore di lavoro, solamente nell’ipotesi in cui l’ambiente di lavoro si manifesti di per sé nocivo per la sua connotazione indebitamente stressogena.
Deve trattarsi in sostanza di azioni ostili anche se limitate nel tempo tali da provocare una modificazione negativa, costante e permanente, della situazione lavorativa del lavoratore idonea a pregiudicarne la salute o altri diritti fondamentali della persona.
Secondo la Corte di Cassazione, tuttavia, tale connotazione negativa dell’ambiente lavorativo non sussiste allorché si delinei soltanto una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro (ancorché, come nel caso deciso, in presenza “sgradevoli affermazioni” e forti critiche professionali rivolte al lavoratore) posto che le stesse divergenze spesso risultano un’inevitabile conseguenza del rapporto interpersonale tra colleghi e superiori, di per sé possibile fonte di tensioni.
In definitiva, in base alla sentenza in esame, una situazione di accesa conflittualità può quindi sfociare in una malattia del lavoratore risarcibile solo in presenza di una comprovata esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano.

Secondo la Cassazione, il debitore può chiedere il risarcimento del danno provocato dall’iscrizione di un’ipoteca sproporzionata ossia eccessiva rispetto al debito garantito.

Nel caso di specie, una banca aveva iscritto un’ipoteca su beni di valore di circa 30 milioni di Euro a cautela di un credito di appena 100 mila Euro.

Il debitore, adducendo che la banca si era resa autrice di un fatto illecito (l’iscrizione eccessiva), aveva richiesto il risarcimento del danno il quale, a suo giudizio, consisteva nel fatto che l’iscrizione aveva impedito la concessione di un finanziamento, e aveva degradato il merito creditizio del debitore e provocato «a cascata» l’iscrizione di ipoteche da parte di altre banche.

Con l’ordinanza del 13 dicembre 2021, n. 39441, la Corte di Cassazione ha accolto il ricorso e cassato con rinvio per nuovo esame la decisione della Corte d’Appello di Firenze.

La portata innovativa dell’ordinanza in questione sta nel fatto che tale pronuncia conferisce un sostanziale cambio di rotta all’orientamento consolidato che negava la responsabilità della banca per iscrizione eccessiva e di fatto negava ogni tutela a fronte di tale abuso.

Così decidendo la Cassazione ha riconosciuto oltre alla possibilità di chiedere la riduzione dell’iscrizione ipotecaria sproporzionata rispetto al credito da garantire anche il risarcimento del danno.

La portata della pronuncia è, quindi, di particolare importanza, poiché apre nuove prospettive non solo rispetto alla tutela del patrimonio illegittimamente aggredito dalla banca, ma anche su una questione per il momento nuova, e cioè sulla responsabilità della banca e sui danni risarcibili provocati da un contegno incauto.

Resta comunque da capire quale sia il parametro cui il creditore debba riferirsi per non incorrere nel caso di una iscrizione sproporzionata. Da questo punto di vista potrebbe tornare utile il principio per il quale il debitore ha diritto alla riduzione dell’ipoteca se il suo valore eccede di un terzo il valore dei crediti a cautela dei quali l’ipoteca viene iscritta (art. 2875 c.c.).

Quindi, in teoria, seguendo il parametro del terzo, non si dovrebbe incorrere nel rischio di sentirsi chiamati in responsabilità per iscrizione eccessiva.

Suscita grande interesse la sentenza del Giudice di Pace di Monza, n. 407/2022, con oggetto una lite tra un utente e la compagnia telefonica che aveva fornito un servizio inferiore alle previsioni contrattuali.
L’accordo stipulato, infatti, prevedeva la fornitura di un servizio di connessione internet su fibra, con esplicita previsione di una velocità non inferiore a 50 mbts e massima di 100 mbts.
Tuttavia, dopo la stipula del contratto, la Compagnia Telefonica comunicava al cliente che, per “non meglio specificate ragioni tecniche”, risultava impossibile raggiungere la velocità minima garantita, proponendo, quindi, una riduzione del canone, che l’utente non accettava.
Ad avviso del Giudice, nel momento in cui formula l’offerta, infatti, la Compagnia è tenuta a verificare preventivamente se la velocità proposta si poteva realmente assicurare, tenuto conto di tutte le variabili.
Colpevolmente, solo a posteriori la Compagnia aveva svolto gli accertamenti del caso e verificato che le concrete condizioni di erogazione del servizio non avrebbero permesso di raggiungere le velocità garantite da contratto.
Nella fattispecie, le prestazioni garantite dal contratto non erano realistiche ma, secondo il Giudice, la situazione concreta va verificata prima di concludere il contratto, altrimenti, come nel caso in oggetto, si deve parlare di inadempimento agli obblighi contrattuali.
La Compagnia è stata condannata al risarcimento del danno cagionato all’utente per circa 4.000 euro, calcolato sulla base della delibera AGCOM 347/18, che prevede un indennizzo di 3 euro al giorno per ogni giorno di malfunzionamento oltre euro 1.000 per lite temeraria, per aver disatteso l’invito dell’utente a risolvere in via bonaria la questione davanti al Corecom, causando in questo modo un aumento di costi che potevano essere evitati.