E’ stato rigettato dalla Corte di Cassazione, con l’ordinanza 7 giugno 2023, il ricorso di una donna caduta a causa di un avvallamento nella strada, confermando così la linea recentemente tenuta a seguito dei principi enunciati dalle Sezioni Unite nel 2022 ed espressamente ribaditi con un’altra recente pronuncia di eguale tenore (Cass. n. 15447/2023).

Per la Suprema Corte la causa della caduta va ricercata nella condotta imprudente della danneggiata. E’ dovere di chi entra in contatto con la cosa custodita, ovvero la strada, di osservare cautela in virtù del principio di solidarietà (art. 2 Cost.). La Cassazione, dunque, esclude la responsabilità del Comune, considerato che, nel caso di specie, la causa esclusiva della caduta deriva dalla “colpevole inavvedutezza comportamentale” della donna e la presenza dell’avvallamento deve considerarsi come mero teatro dell’evento, non già come causa.

La Corte di Cassazione ha recentemente espresso il principio secondo cui non è qualificabile come licenziamento orale il recesso datoriale per compimento del termine apposto al contratto di lavoro, sia esso autonomo o subordinato, allorquando la volontà di recedere sia espressa in forma scritta, temporalmente identificata, semanticamente non equivocabile.

Nel caso di specie, enunciando espressamente il principio di diritto, la Suprema Corte ha ritenuto di dover assegnare valore di intimazione di recesso alla proroga del rapporto di collaborazione in essere, disposta sino alla fine dell’anno ed intervenuta mediante lettera comunicata al lavoratore nella quale il datore aveva precisato che al termine della proroga il rapporto avrebbe avuto temine senza necessità di ulteriori comunicazioni.

Cass. civ., Sez. lavoro, Ordinanza, 27/06/2023, n. 18254

La disciplina limitativa del potere di licenziamento non è applicabile, ai sensi dell’art. 10 L. n. 604/1966 ai dirigenti convenzionali cioè da ritenere tali alla stregua delle declaratorie del contratto collettivo, applicabile, siano essi dirigenti apicali, siano dirigenti medi o minori, ad eccezione degli pseudo dirigenti vale a dire di coloro i cui compiti non sono in alcun modo riconducibili alla declaratoria contrattuale del dirigente.

È quanto ha recentemente affermato la Corte di Cassazione con la sentenza Cass., sez. lav., 8 giugno 2023, n. 16208, con ciò sostanzialmente ribadendo il proprio consolidato orientamento secondo il quale, rientrano nel campo della c.d. libera recedibilità i rapporti di lavoro dei dipendenti a cui sia effettivamente attribuibile la qualifica dirigenziale in base ai parametri stabiliti dal contratto collettivo applicabile, siano essi  in posizione apicale ovvero anche in posizione non apicale, restandone invece esclusi e sottoposti quindi alla disciplina limitativa dei licenziamenti (con la possibilità, quindi, di contestare l’assenza di una giusta o di un giustificato motivo alla base del licenziamento) i c.d. pseudo rigenti.

La sentenza ha fra l’altro il merito di aver chiaramente delineato la figura dello “pseudo dirigente” (altrimenti detto “dirigente per convenzione” e di origine esclusivamente giurisprudenziale), riferibile  a quei lavoratori che pur essendo inquadrati contrattualmente nelle categorie dirigenziali (per motivi ad esempio correlati alla volontà del datore di lavoro di attribuir loro per ragioni di anzianità di servizio o di meritevolezza alcuni benefici contrattuali previsti per i lavoratori con qualifica dirigenziale) sul piano sostanziale, delle mansioni di fatto espletate, non esercitano funzioni corrispondenti  riconducibili alla declaratoria della categoria dirigenziale.

Secondo quanto emerge dalla sentenza in commento il discrimine fra “veri” dirigenti e pseudo dirigenti è dunque dato non solo e non tanto dalla posizione ricoperta dal lavoratore nell’ambito della gerarchia aziendale ma piuttosto dalla corrispondenza o meno fra le mansioni e responsabilità concretamente assegnate al lavoratore e la descrizione delle figure dirigenziali contenuta nel contratto collettivo applicabile al rapporto di lavoro.

La Suprema Corte, con la sentenza n. 20800 del 18 luglio 2023, ha stabilito che il titolare del diritto di privativa, che lamenti la sua violazione ha facoltà di chiedere, in luogo del risarcimento del danno da lucro cessante, la restituzione (cd. retroversione”) degli utili realizzati dall’autore della violazione, con apposita domanda ai sensi dell’art. 125 del Codice della Proprietà Industriale, senza che sia necessario allegare specificamente e dimostrare che l’autore della violazione abbia agito con colpa o con dolo.

Al riguardo, il soggetto contraffattore, pur avendo agito in mancanza dell’elemento soggettivo (doloso o colposo), deve comunque restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione, per effetto del rimedio restitutorio, volto a salvaguardare il titolare di un diritto di privativa che rimarrebbe altrimenti privo di tutela, laddove la contraffazione fosse causata in assenza dell’elemento soggettivo del dolo e della colpa.

Risulta, quindi, confermato l’orientamento delle corti di merito, secondo cui il concetto di violazione dei diritti di proprietà industriale prescinde dall’elemento soggettivo, atteso che il soggetto contraffattore, quand’anche abbia agito in mancanza di dolo o colpa, è comunque tenuto a restituire al titolare gli utili che ha realizzato nella propria attività di violazione.