Il rapporto causale tra l’evento e il danno è governato dal principio di equivalenza delle condizioni, secondo cui va riconosciuta efficienza causale ad ogni antecedente che abbia contribuito, anche in maniera indiretta e remota, alla produzione dell’evento, potendosi escludere l’esistenza del nesso eziologico richiesto dalla legge solo se possa essere ravvisato con certezza l’intervento di un fattore estraneo all’attività lavorativa, di per sé sufficiente a produrre l’infermità e tale da far degradare gli altri fattori a semplici occasioni”.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21950 del 21 luglio 2023, accogliendo il ricorso promosso dagli eredi di un lavoratore deceduto per malattia tumorale  contratta – in base alla loro tesi – nello svolgimento dell’attività lavorativa, avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma che aveva respinto la loro domanda di risarcimento danni nei confronti del datore di lavoro in ragione, fra l’altro, della prolungata massiccia dedizione al fumo del lavoratore deceduto, identificata dai Giudici della Corte d’Appello come causa esclusiva della malattia.

Secondo quanto affermato dai Giudici della Corte di Cassazione, in particolare, nel caso di malattia astrattamente ricollegabile a distinte cause di origine lavorativa ed extra lavorativa (fra le quali ultime, come nella fattispecie considerata, il fumo di sigaretta) un singolo fattore può essere considerato causa esclusiva della malattia solamente qualora, innescando una serie causale autonoma, sia stato in grado, da solo, di produrre l’evento.

Tale prova, tuttavia, non può essere oggetto di semplici presunzioni, ma necessita di una concreta e specifica dimostrazione, in termini di “probabilità qualificata”.

Alla luce di tali premesse, la decisione della Corte d’appello di Roma che aveva assegnato al fumo di sigaretta il ruolo di fattore causale autonomo, idoneo di per sé a produrre la patologia tumorale, in ragione di semplici presunzioni e non di un accertamento concreto ancorato a dati scientifici, è stata pertanto ritenuta errata.

Il Consiglio di Stato, con l’ordinanza n. 8184 in data 6.9.2023, prende posizione sull’incameramento delle opere non amovibili realizzate sul demanio marittimo al termine della concessione, sulla richiesta di chiarimenti della CGUE, nell’ambito del procedimento di rinvio preguidiziale sulla seguente questione “Se gli artt. 49 e 56 TFUE ed i principi desumibili dalla sentenza Laezza (C- 375/14) ove ritenuti applicabili, ostino all’interpretazione di una disposizione nazionale quale l’art. 49 cod. nav. nel senso di determinare la cessione a titolo non oneroso e senza indennizzo da parte del concessionario alla scadenza della concessione quando questa venga rinnovata, senza soluzione di continuità, pure in forza di un nuovo provvedimento, delle opere edilizie realizzate sull’area demaniale facenti parte del complesso di beni organizzati per l’esercizio dell’impresa balneare, potendo configurare tale effetto di immediato incameramento una restrizione eccedente quanto necessario al conseguimento dell’obiettivo effettivamente perseguito dal legislatore nazionale e dunque sproporzionato allo scopo”.

Il Consiglio di Stato precisa che, sulla base del meccanismo di cui sopra, che opera con effetto automaticamente costitutivo del diritto in favore dello Stato al cessare dell’efficacia della concessione, le conseguenze sul piano della tutela dei diritti sono cruciali, ritenendo che la compatibilità con il diritto eurounitario di questo meccanisimo debba misurarsi, oltre che con il fatto che la devoluzione in favore dello Stato avviene a titolo non oneroso e senza alcun indennizzo, anche con i presupposti processuali e le condizioni dell’azione, non potendo l’accesso alla giustizia essere così complesso da divenire impossibile. L’art. 49, cod. nav. prevede infatti l’acquisto automatico e costitutivo del diritto sulle opere inamovibili in capo allo Stato, senza al contempo prevedere uno strumento, anche amministrativo, per determinare e accertare in modo congruo, adeguato, ragionevole e proporzionato l’effettiva consistenza delle opere che vengono acquisite al patrimonio dello Stato.

Inoltre, le concessioni amministrative, ad ogni successivo rilascio o rinnovo, si limitano a riprodurre il testo dell’art. 49, cod. nav., senza accertare previamente in modo chiaro e comprensibile qual è l’area demaniale concessa e, nell’ambito di questa, quella frutto dell’incremento devolutivo. In definitiva, secondo il Consiglio di Stato, il momento nel quale viene accertata l’effettiva consistenza dell’acquisizione si sposta costantemente in avanti, solitamente sino a quando l’Amministrazione formula la richiesta di maggiori canoni.

Il Consiglio di stato chiede, dunque, alla CGUE di pronunciarsi sulla questione alla stessa rimessa anche per ragioni di certezza giuridica ed effettività della tutela “potendo il meccanismo contenuto nell’art. 49, cod. nav. precludere la tutela dei diritti, in quanto:

  1. a) manca un provvedimento formale ed espresso da impugnare sullo stato di consistenza delle opere che si perdono in capo al privato e si acquistano da parte dello Stato; b) perché rappresenta un principio giuridico generale quello secondo cui l’oggetto di ogni rapporto giuridico, sia che esso abbia la propria fonte nel negozio, nel contratto o nell’atto amministrativo, dovrebbe caratterizzarsi per la possibilità di essere determinato fin dalla sua origine o comunque di esserlo in seguito, determinabile, con un ragionevole grado di certezza; c) perché la chiarezza sullo stato di consistenza delle opere da acquisire non è una questione che riguarda solo il concessionario uscente e lo Stato, ma tutti gli operatori economici che aspirano a divenire concessionari, in quanto la entità del canone dipende concretamente dagli incrementi che via via subisce nel tempo il bene demaniale”.

Nei prossimi mesi la CGUE dovrà, ricevuti i chiarimenti di cui sopra, pronunciarsi sulla questione interpretativa sollevata dal Consiglio di Stato.

La Corte di Cassazione, con ordinanza n. 6342 del 2 marzo 2023, si è espressa sulla validità dell’assegno quale titolo esecutivo nel caso in cui la data risulti sovrascritta e di fatto incerta.

La vicenda trae origine dall’opposizione a precetto emesso su base di un titolo esecutivo – assegno bancario – con data di emissione alterata.

Più nel dettaglio, l’odierna ricorrente assumeva la prescrizione del titolo in quanto emesso nell’anno 2015, data successivamente corretta in anno 2016.

Sia in primo che secondo grado di giudizio l’opposizione veniva rigettata atteso che la Corte d’Appello aveva ritenuto che nel caso di specie non fosse stato possibile stabilire se l’assegno in oggetto fosse stato “alterato” ovvero modificato dopo la sua emissione -, oppure semplicemente “corretto” – ovvero emendato dallo stesso traente al fine di operare una correzione -, non essendo riuscito l’opponente a provarne l’alterazione e, di conseguenza, aveva ritenuto non applicabile l’art. 68, comma 2, R.D. n. 1736/33 che così prevede: “Qualora non risulti dal titolo o non si dimostri che la firma sia stata apposta prima o dopo, si presume che sia stata apposta prima”.

Avverso tale decisione la ricorrente si rivolgeva alla Corte di Cassazione che, in data 2 marzo 2023, pronunciava il seguente principio: “L’assegno bancario recante una sovrascrittura della data è inefficace come titolo esecutivo, quando la suddetta alterazione renda la data di emissione insuperabilmente incerta”.

La decisione della Cassazione ha spianato la strada ad un nuovo orientamento giurisprudenziale, avente ad oggetto l’efficacia dell’assegno bancario con data incerta, dopo che la giurisprudenza ha avuto negli anni una tormentata evoluzione, con due filoni principali.

Da un lato una lettura rigoristica che stabiliva la nullità dell’assegno in quanto tale e l’inefficacia come titolo esecutivo (non valeva quindi neanche come prova scritta del credito), dall’altro un orientamento meno rigido confermato dalla sentenza n. 6342/2023.

Secondo la pronuncia in commento l’incertezza della data non rende nullo l’assegno bancario, ma lo rende inefficace quale titolo esecutivo, con la conseguenza che potrà avere valore di prova scritta (con tutte le cautele del caso) del credito fatto valere, ma non potrà essere usato come titolo esecutivo.

Ne discende che la data di emissione è qualificabile come elemento essenziale affinché l’assegno possa assumere la veste di titolo esecutivo.

Per tale ragione è sempre consigliabile porre una particolare attenzione a questo elemento, sia nel ricevere che nel consegnare un assegno, onde evitare di incorrere nella successiva e ipotetica problematica di non poter riscuotere quanto di diritto direttamente con il titolo.