La Corte di Cassazione, con sentenza n. 27292/2021, ha stabilito che l’escussione della fideiussione, da parte del creditore, non preclude la facoltà di quest’ultimo di domandare comunque la risoluzione del contratto per inadempimento.

Nella fattispecie trattata dalla Corte, il locatore di un immobile ad uso commerciale aveva intimato lo sfratto al conduttore a causa del mancato pagamento dei canoni.

Ne seguiva l’opposizione allo sfratto da parte del conduttore il quale eccepiva, in primo luogo, che l’inadempimento fosse venuto meno a seguito dell’escussione della garanzia fideiussoria da parte del locatore. Il conduttore, vedendosi soccombente nei pregressi gradi di giudizio, portava la questione all’attenzione della Corte di Cassazione.

Secondo quest’ultima, tuttavia, la pattuizione di una polizza fideiussoria, così come la sua escussione, non valgono ad escludere l’inadempimento del conduttore in quanto l’escussione della fideiussione non fa venir meno le ragioni giustificative della risoluzione del contratto di locazione per inadempimento.

Ciò, atteso che “la garanzia fideiussoria non elimina l’inadempimento, ma pone a carico del fideiussore un obbligo autonomo rispetto a quello del debitore principale”, impedendo il pagamento effettuato dal fideiussore “di agire nei confronti del debitore principale per ottenere l’adempimento” ma non precludendo, invece, “l’esercizio della facoltà di domandare la risoluzione del contratto per inadempimento”.

La cessione del credito in ambito bancario è regolata dall’art. 58 T.U.B. che deroga parzialmente al regime ordinario civilistico previsto dagli articoli 1260 e 1264 c.c..

L’art. 58, comma 2, T.U.B. dispone – ai fini dell’opponibilità della cessione ai debitori ceduti – che la banca cessionaria dia notizia dell’avvenuta cessione mediante iscrizione e pubblicazione della stessa nel Registro delle Imprese e nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana.

Nonostante la chiarezza della previsione normativa la giurisprudenza si è espressa, più volte, sulla efficacia probatoria della titolarità dei crediti ceduti da sottoporre alla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale.

Se sino a qualche anno fa la giurisprudenza maggioritaria (ex plurimis: Tribunale Pavia, 1° febbraio 2019, n. 184) riteneva che la mera pubblicazione in Gazzetta Ufficiale consentiva di riconoscere la titolarità del credito ceduto, negli ultimi mesi l’orientamento della giurisprudenza sta cambiando.

Sono sempre più frequenti, infatti, le pronunce di merito (ex plurimis: Tribunale Verona, 29 novembre 2021, n. 26251, Tribunale Treviso, 2 dicembre 2021, n. 26248) secondo cui la semplice pubblicazione in Gazzetta Ufficiale non prova la titolarità dei crediti ceduti in blocco ma è, al più, elemento indicativo della cessione.

Il Tribunale di Treviso (sentenza n. 26248/2021), per esempio, non ha ritenuto sufficientemente determinato o determinabile l’oggetto della cessione in quanto l’avviso pubblicato in Gazzetta Ufficiale contemplava la cessione di crediti che soddisfacevano criteri piuttosto generici.

Il più recente orientamento giurisprudenziale, ben rappresentato dalle pronunce del Tribunale di Verona e di Treviso, ha iniziato a focalizzare l’attenzione su tutta una serie di requisiti ritenuti rilevanti al fine di conferire efficacia probatoria al contenuto della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale quali, per esempio, la data in cui è sorto il rapporto obbligatorio, la causa del credito, la descrizione e la denominazione del credito, l’esistenza di una situazione patologica di inadempimento, il consenso del debitore alla cessione.

È quindi evidente che si sta iniziando ad affermare un orientamento giurisprudenziale maggiormente favorevole al debitore ceduto ed impositivo di maggiori oneri a carico del creditore che per cedere in blocco i crediti deve agire con il maggior grado di dettaglio possibile se vuole evitare complicazioni processuali che potrebbero avere ripercussioni, tra le altre, sulla performance del portafoglio acquistato.

Con la sentenza n. 7400 del 7 marzo 2022 la sezione lavoro della Corte di Cassazione, ha stabilito che “non è consentito al datore di lavoro tornare sulle scelte compiute quanto al numero, alla collocazione aziendale ed ai profili professionali dei lavoratori in esubero, ovvero ai criteri di scelta dei singoli lavoratori da estromettere, attraverso ulteriori e successivi licenziamenti individuali la cui legittimità è subordinata alla individuazione di situazioni di fatto diverse da quelle poste a base del licenziamento collettivo.

Secondo quanto precisato nell’ambito della medesima sentenza, infatti, il licenziamento per giustificato motivo oggettivo disposto per gli stessi motivi già addotti a fondamento di un precedente licenziamento collettivo realizza uno schema in frode alla legge (si considerano tali, ai sensi dell’art. 1344 c.c., i contratti e, più in generale gli atti negoziali, che “costituiscono il mezzo per eludere l’applicazione di una norma imperativa”).

Ne consegue la nullità del licenziamento individuale (nel caso deciso con la sentenza in esame si trattava del licenziamento di un dirigente aziendale, del quale era stata accertata la prossimità temporale e l’identità delle ragioni rispetto ad altra precedente procedura collettiva posta in essere dal medesimo datore di lavoro) ed il conseguente diritto del lavoratore licenziato alla reintegrazione nel posto di lavoro, nonché, in base alla normativa attualmente vigente, al risarcimento del danno, in ragione di un’indennità corrispondente alla retribuzione spettante per il periodo compreso fra il giorno del licenziamento e quello dell’effettiva reintegrazione (e comunque non inferiore a 5 mensilità), con contestuale condanna del datore di lavoro al versamento dei corrispondenti contributi previdenziali e assistenziali.

“Il figlio divenuto maggiorenne ha diritto al mantenimento a carico dei genitori soltanto se, ultimato il prescelto percorso formativo scolastico, sia dimostrato (dal figlio, ove agisca il medesimo in giudizio, o dal genitore interessato) che il medesimo si sia adoperato effettivamente per rendersi autonomo economicamente, impegnandosi attivamente per trovare un’occupazione in base alle opportunità reali offerte dal mercato del lavoro, se del caso ridimensionando le proprie aspirazioni, senza indugiare nell’attesa di una opportunità lavorativa consona alle proprie ambizioni”.

Lo ha affermato la Corte di Cassazione nell’Ordinanza n. 8049 dell’11 marzo 2022 con riferimento al caso di un giovane, maggiorenne, il quale, trascorsi 6 anni dal conseguimento della licenza media, non aveva ancora trovato un lavoro, né aveva intrapreso alcun percorso di formazione professionale al fine di facilitare tale ricerca, con ciò dimostrando una colpevole inerzia, rispetto alla propria condizione di non autosufficienza economica.

La decisione in esame si pone, invero, in linea con il consolidato orientamento della stessa Corte di Cassazione secondo il quale l’obbligo dei genitori di mantenere i propri figli non cessa automaticamente con il raggiungimento della maggiore età, ma continua invariato fintanto che i figli stessi non abbiano raggiunto l’indipendenza economica, ovvero, siano stati comunque posti – attraverso adeguato percorso educativo e formativo e compatibilmente con le condizioni economiche dei genitori – nelle concrete condizioni per poter essere economicamente autosufficienti.

La medesima decisione merita tuttavia di essere segnalata perché riferita ad un soggetto più giovane rispetto agli altri interessati da analoghi precedenti giurisprudenziali, il che sembrerebbe mostrare la volontà del Supremo Collegio di anticipare il limite di età oltre il quale l’interesse del figlio al mantenimento da parte dei genitori, comincia a perdere rilevanza per l’ordinamento ove non accompagnato da un concreto impegno del diretto interessato alla determinazione della propria autosufficienza economica.