La recente sentenza del Tribunale di Cuneo n.  755/2022, pubblicata in data 19.8.2022, ha ribadito il criterio da utilizzare al fine di determinare il soggetto responsabile (condominio o singolo condomino) in caso di danni a terzi derivanti da difetti di funzionamento e cattiva manutenzione degli impianti idrici.

Nel corso del giudizio instaurato da un esercizio commerciale facente parte di un condominio nei confronti dei proprietari dell’appartamento sovrastante, per ottenere il risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell’allagamento dei locali di sua proprietà destinati all’esercizio dell’attività di vendita al dettaglio, l’attore ha dedotto che, come accertato dal Vigili del Fuoco intervenuti, l’allagamento era da ricondurre alla rottura di un tubo situato nella cucina dell’appartamento sovrastante.

Costituitisi in giudizio, i convenuti eccepivano che la fuoriuscita dell’acqua sarebbe stata provocata dalla rottura della tubatura principale, all’interno del muro e proprietà condominiale e chiedevano, quindi, ottenendola, l’autorizzazione alla chiamata in causa del condominio.

Con la sentenza sopra menzionata, il Tribunale di Cuneo ha richiamato la distinzione in tema di parti comuni dell’edificio con riguardo agli impianti idrici e fognari, i quali sono di proprietà comune, se il contrario non risulta dal titolo, fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva dei singoli condomini ovvero, in caso di impianti unitari, fino al punto di utenza, come previsto dall’art. 1117 cod. civ..

È stata quindi ribadita dal Giudice la giurisprudenza della Suprema Corte, secondo la quale, in tema di condominio, poiché, ai sensi dell’art. 1117 cod. civ., comma 3, i canali di scarico sono comuni solo fino al punto di diramazione degli impianti ai locali di proprietà esclusiva e poiché la “braga” di raccordo tra la colonna verticale di scarico comune e la tubazione orizzontale di pertinenza di un appartamento in proprietà esclusiva è inserita in quest’ultima, dei danni derivati a terzi dalla rottura di tale “braga” risponde il condomino e non il condominio.

Trattandosi, quindi, di condutture che si addentrano nei singoli appartamenti e non di tubazione che rimane fuori dalle unità abitative di proprietà esclusiva, la responsabilità per i danni cagionati da cose in custodia deve gravare sui convenuti proprietari dell’appartamento sovrastante e non già sul condominio terzo chiamato.

Come si è già segnalato, l’1 agosto 2022 è entrato in vigore il D.L.vo n. 104, del 27 giugno 2022 (c.d. “Decreto trasparenza”) con il quale il nostro Legislatore ha dato attuazione alla Direttiva Europea 2019/1152 “relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili nell’Unione Europea”.

Il Decreto – oltre ad aver stabilito rilevanti novità in materia di diritto all’informazione dei lavoratori, di cui già abbiamo dato notizia in altro precedente articolo della Newsletter di Settembre 2022 – ha fissato alcune prescrizioni minime relative alle condizioni di lavoro destinante ad incidere in maniera non irrilevante sulla regolamentazione di determinate tipologie di rapporto di lavoro.

Di seguito, riportiamo sinteticamente le principali novità del Decreto.

Patto di prova

La durata massima del patto di prova è stata fissata in 6 mesi, fatta salva l’eventuale durata inferiore prevista dai contratti collettivi (è da segnalare, tuttavia, che tale limite temporale indirettamente già esisteva stante l’applicabilità della disciplina limitativa dei licenziamenti decorsi 6 mesi dalla instaurazione del rapporto di lavoro, anche in presenza di patto di prova).

In caso di contratto a termine la durata del patto di prova dovrà essere proporzionale alla durata del contratto stesso; inoltre, in caso di rinnovo del contratto di lavoro per le stesse mansioni, il periodo di prova non potrà essere ripetuto.

In ipotesi di assenza dal lavoro, ad esempio, per malattia, infortunio, congedo parentale o maternità, il periodo di prova dovrà infine essere prolungato per la corrispondente durata.

Cumulo di impieghi

Il datore di lavoro non può vietare al lavoratore lo svolgimento di altra attività lavorativa al di fuori dell’orario di lavoro.

Resta tuttavia  salva la facoltà di negare o limitare tale facoltà ove lo svolgimento di altra attività lavorativa sia incompatibile con esigenze di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore (si pensi al caso di superamento della durata massima della prestazione lavorativa), ovvero, con la necessità per il datore di lavoro di garantire l’integrità di un determinato servizio pubblico svolto, ovvero ancora quando l’ulteriore attività lavorativa risulti in conflitto di interessi con l’attività svolta dal datore di lavoro.

Formazione obbligatoria

La formazione obbligatoria dovrà essere garantita dal datore di lavoro, gratuitamente, e possibilmente svolta durante l’orario di lavoro.

Salvo che in casi specifici la legge o la contrattazione collettiva non dispongano diversamente, è tuttavia esclusa dal campo di applicazione della normativa in esame “la formazione necessaria al lavoratore per ottenere o rinnovare una qualifica professionale”.

Prevedibilità del lavoro

Qualora con riferimento alla tipologia del rapporto di lavoro, l’organizzazione del lavoro sia interamente o in gran parte imprevedibile (in sostanza si tratta di quei rapporti di lavoro in cui non sia predeterminato l’orario di lavoro e la sua collocazione temporale), il datore di lavoro può imporre al lavoratore di svolgere le proprie prestazioni lavorative solamente quando:

1 il lavoro sia da svolgere entro ore e giorni di riferimento predeterminati e

  1. il lavoratore sia stato informato dal suo datore di lavoro sull’incarico o la prestazione da eseguire, con un ragionevole periodo di preavviso.

In carenza di una o entrambe le condizioni di cui sopra il lavoratore avrà il diritto di rifiutare di assumere un incarico di lavoro o di svolgere le proprie prestazioni di lavoro, senza subire alcun pregiudizio anche di natura disciplinare.

Con l’ordinanza n. 28632/2022 la Suprema Corte di Cassazione ha sancito l’inapplicabilità delle c.d. Tabelle di Milano nella valutazione e nella liquidazione del danno non patrimoniale causato dal colposo ritardo diagnostico della patologia ad esito infausto.

Nella parte motiva del ridetto provvedimento la Suprema Corte  di Cassazione  – in linea con precedenti giurisprudenziali che hanno sancito l’inapplicabilità delle c.d. Tabelle di Milano nella valutazione del danno derivante dalla violazione del diritto di determinarsi liberamente nella scelta del proprio percorso esistenziale – ha precisato che per il risarcimento del danno da omessa diagnosi non si possono applicare le c.d. Tabelle Milano, ma occorre tenere conto di tutte le circostanze specifiche del caso concreto, come l’età del danneggiato, il ritardo intercorso tra il primo accertamento, la diagnosi della malattia e il successivo decesso, le condizioni generali del paziente nel periodo compreso tra il primo accertamento e la diagnosi corretta.

Infatti, la liquidazione equitativa di cui all’art 1226 c.c. può essere utilizzata dal giudice quando, come nel caso in esame, è impossibile determinare l’ammontare del risarcimento o quando la sua determinazione risulti particolarmente difficoltosa. L’applicazione di tale criterio non deve pregiudicare l’entità del risarcimento del danno non patrimoniale, che comunque deve essere congruo: il giudice, infatti, è tenuto a prendere in considerazione il pregiudizio effettivo subito e le ripercussioni negative che lo stesso ha avuto sul patrimonio dello stesso e sul valore della persona, provvedendo al ristoro integrale dello stesso.

In linea con il proprio precedente orientamento, la Corte di Cassazione ha recentemente ribadito che Il lavoratore può registrare di nascosto le conversazioni con i colleghi per tutelare la propria posizione all’interno dell’azienda.

Non serve, in particolare, il consenso dell’interessato quando il trattamento dei dati – come l’audio acquisito da un ignaro interlocutore – serve a precostituirsi un mezzo di prova, magari contro il datore: ciò purché l’utilizzo dell’audio non vada oltre le finalità della tesi difensiva e, dunque, le necessità del legittimo esercizio di un diritto.

Secondo la Corte, in particolare, il diritto alla difesa prevale su quello alla privacy, dovendosi estendere tale diritto di difesa a tutte le attività dirette ad acquisire elementi di prova utilizzabili in giudizio, anche prima che la controversia sia instaurata in modo formale.