“In tema di licenziamento disciplinare, qualora il comportamento addebitato al lavoratore, consistente nel rifiuto di rendere la prestazione secondo determinate modalità, sia giustificato dall’accertata illegittimità dell’ordine datoriale e dia luogo pertanto a una legittima eccezione d’inadempimento, il fatto contestato deve ritenersi insussistente perché privo del carattere dell’illiceità con conseguente applicazione della tutela reintegratoria attenuata, prevista dalla L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, come modificato dalla L. n. 92 del 2012”.

È quanto affermato dalla Corte di Cassazione con la sentenza “Cass. Sez. Lav., 5 giugno 2023, n. 15676”, in relazione al licenziamento disciplinare di un lavoratore che si era rifiutato di prendere servizio a seguito della illegittima decisione del datore di lavoro di reintegrarlo nel posto di lavoro, ai sensi dell’art. 18, c. 4, della l. 300/1970, disponendo la trasformazione del rapporto da tempo pieno a tempo parziale.

Secondo quanto affermato dalla Corte di Cassazione, che ha confermato la decisione dei giudici merito che avevano stabilito l’illegittimità del licenziamento, “l’unilaterale trasformazione del rapporto di lavoro da tempo pieno a tempo parziale» è infatti «vietata dalla normativa in assenza di accordo delle parti risultante da atto scritto”.

Ne consegue la legittimità della condotta del lavoratore che, a fronte di una simile decisione unilaterale del datore di lavoro, si rifiuti di riprendere l’attività lavorativa, avvalendosi dell’eccezione di inadempimento di cui all’art. 1460 cod. civ. (“Nei contratti con prestazioni corrispettive, ciascuno dei contraenti può rifiutarsi di adempiere la sua obbligazione, se l’altro non adempie o non offre di adempiere contemporaneamente la propria, salvo che termini diversi per l’adempimento siano stati stabiliti dalle parti o risultino dalla natura del contratto”) e, di conseguenza, anche l’illegittimità del licenziamento disciplinare che su tale rifiuto pretenda di fondarsi.

L’art. 11 del nuovo Codice degli Appalti disciplina il principio di applicazione dei contratti collettivi nazionali e di settore, indicando le condizioni contrattuali minime che l’aggiudicatario deve applicare al personale impiegato.
In particolare, si prevede l’obbligo per le stazioni appaltanti e per gli enti concedenti di indicare nei bandi e negli inviti il contratto collettivo applicabile al personale dipendente impiegato nell’appalto o nella concessione.
Si tratta di una previsione innovativa perché, così facendo, il contratto collettivo da applicare viene stabilito negli atti di gara.
La disposizione fa emergere, tuttavia, una criticità importante in ordine all’applicabilità o meno e a quali condizioni da parte dell’operatore economico di un contratto collettivo diverso da quello stabilito dagli atti di gara.
Dalla lettura della norma, risulta espressamente applicabile un diverso contratto collettivo (“3. Gli operatori economici possono indicare nella propria offerta il differente contratto collettivo da essi applicato, purché garantisca ai dipendenti le stesse tutele di quello indicato dalla stazione appaltante o dall’ente concedente”).
In caso di applicazione di diverso contratto collettivo, prima dell’affidamento o dell’aggiudicazione le stazioni appaltanti devono acquisire dichiarazione con la quale l’operatore economico si impegna ad applicare il contratto collettivo nazionale e territoriale indicato nell’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto per tutta la sua durata, ovvero dichiarazione di equivalenza delle tutele (“Nei casi di cui al comma 3, prima di procedere all’affidamento o all’aggiudicazione le stazioni appaltanti e gli enti concedenti acquisiscono la dichiarazione con la quale l’operatore economico individuato si impegna ad applicare il contratto collettivo nazionale e territoriale indicato nell’esecuzione delle prestazioni oggetto del contratto per tutta la sua durata, ovvero la dichiarazione di equivalenza delle tutele”).
Compete alla Stazione appaltante di valutare se il contratto collettivo indicato dall’operatore economico garantisca le medesime tutele riportate negli atti di gara.
La medesima disciplina, si applica, inoltre, ai subappaltatori.
Si tratta di valutazione non semplice e non sempre esperibile con certezza nei casi in cui siano individuabili più contratti collettivi molto diversi tra loro, con caratteristiche e standard di tutela differenti.
Potranno, quindi, essere molto utili per guidare nella valutazione sia la prassi sia la giurisprudenza che si formeranno con l’applicazione del nuovo Codice.

Il registro INAD è istituito dall’articolo 6-quater del CAD (D.Lgs. n. 82/2005) e si aggiunge all’indice nazionale dei domicili digitali delle imprese e dei professionisti (INI-PEC) e all’indice dei domicili digitali delle pubbliche amministrazioni e dei gestori di pubblici servizi (IPA).

L’INAD è consultabile dal 6 luglio 2023 e ivi i soggetti di cui sopra possono eleggere il proprio domicilio digitale, indicando un indirizzo PEC dove ricevere tutte le comunicazioni ufficiali della Pubblica Amministrazione.

Grazie a INAD, tutte le comunicazioni della Pubblica Amministrazione con valore legale, come ad esempio rimborsi fiscali e detrazioni d’imposta, accertamenti, verbali di sanzioni amministrative, e così via, vengono inviate direttamente nella casella di posta indicata dal cittadino, che può gestire in autonomia il proprio domicilio digitale.

L’istituzione di questo registro ha un impatto anche per gli avvocati atteso che, in forza delle previsioni dell’art. 3-ter L. 53/1994, introdotto dalla c.d. Riforma Cartabia, per i procedimenti instaurati successivamente al 28.2.2023, le notificazioni degli atti giudiziali in materia civile e degli atti stragiudiziali, dovranno obbligatoriamente essere eseguite a mezzo di posta elettronica certificata ogni qual volta il destinatario sia titolare di un domicilio digitale (dunque, a oggi, di un indirizzo PEC) che risulti presente nel suddetto elenco INAD.

In pratica, prima di effettuare una notifica nei confronti di una persona fisica, sarà necessario verificarne la presenza nell’INAD, tramite inserimento, nella pagina web sopra indicata, del codice fiscale.

In caso di riscontro positivo, si dovrà obbligatoriamente notificare a mezzo PEC all’indirizzo risultante della ricerca; qualora tale notifica abbia esito negativo, o sia impossibile, si potrà procedere con la notifica “tradizionale” (cartacea) tramite UNEP, ovvero in proprio, dando atto, con dichiarazione ex art. 137 co. 7 c.p.c. dell’infruttuosità del procedimento via pec.

Si segnala, inoltre, che nell’INAD sono inseriti automaticamente anche i domicili digitali dei professionisti iscritti nell’INI-PEC, che, per gli avvocati, coincidono con gli indirizzi PEC comunicati all’Ordine; rimane comunque facoltà del professionista di eleggerne uno diverso destinato alle comunicazioni/notificazioni di natura personale.

Sta facendo molto discutere il principio di diritto affermato dalla Corte di Giustizia Europea nella pronuncia del 17 maggio 2022, ribadito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione nella pronuncia n. 9479 del 6 aprile 2023, secondo cui – qualora il titolo esecutivo sia rappresentato da un decreto ingiuntivo non opposto nel quale non è contenuta una specifica motivazione in ordine all’assenza di clausole abusive – la nullità del contratto può essere fatta valere, anche per la prima volta, in sede esecutiva.

Sul punto però non tutte le pronunce di merito via via pubblicate sono dello stesso avviso. È questo il caso, per esempio, della sentenza n. 1500 del 3 luglio 2023 con cui il Tribunale di Monza ha sancito che il principio affermato dalla Corte di Giustizia Europea non trova applicazione nel caso in cui l’abusività sia collegata a clausole di un contratto di fideiussione conforme al modello ABI 2005/2006.

Nel caso deciso dal Tribunale di Monza il fideiussore proponeva opposizione a precetto ex art 615 c.p.c. nei confronti del creditore lamentando la nullità del contratto di fideiussione per violazione della normativa sulla concorrenza, in quanto nello stesso sarebbero state presenti clausole conformi al modello ABI 2005/2006.

Si costituiva il creditore, contestando in fatto e in diritto la ricostruzione proposta dall’opponente.

Il Giudice si è pronunciato affermando che l’eventuale nullità del contratto avrebbe dovuto essere fatta valere in sede di opposizione al decreto ingiuntivo. Secondo il Giudice, infatti, una volta formatosi il giudicato per mancata opposizione, è preclusa la possibilità di sollevare in sede esecutiva censure in merito a quanto opinato dal giudice della fase monitoria.

Sempre secondo il Giudice la ridetta censura non può essere fatta valere in sede di opposizione all’esecuzione nemmeno sulla scorta dei principi espressi dalla recente sentenza delle Sezioni Unite n. 9479 del 6 aprile 2023 (che, come scritto, riprendono quello sancito dalla Corte di Giustizia Europea) atteso che, nel caso di specie, la disciplina è attratta dalla normativa anticoncorrenziale che trova fondamento nella Legge n. 287/1990 anziché da quella posta a tutela del consumatore.

Conseguentemente, non venendo in rilievo alcuna clausola “abusiva”, le censure concernenti la nullità del contratto per violazione della normativa anticoncorrenziale avrebbero dovuto essere fatte valere mediante la proposizione di una opposizione al decreto ingiuntivo ma sulle stesse si era ormai formata la preclusione derivante dal giudicato.