Il Ministero delle Infrastrutture e della Mobilità Sostenibili, con decreto in data 5.4 u.s., ha pubblicato sul proprio sito, il decreto di semplificazione della procedura per la compensazione, per il secondo semestre 2021, dell’aumento dei prezzi dei materiali da costruzione più significativi, negli appalti pubblici.

Secondo quanto previsto nel decreto, entro 45 giorni dalla pubblicazione in Gazzetta Ufficiale del decreto di rilevazione della variazione dei prezzi per il II semestre 2021 (in via di pubblicazione), le Stazioni Appaltanti potranno chiedere di accedere al fondo per l’adeguamento dei prezzi, istituito secondo la previsione di cui all’articolo 1 septies, DL. 73/2021. Gli uffici del Ministero potranno procedere all’erogazione dell’anticipo del 50% (come previsto dall’art. 23, D.L. 21/2022) e del saldo alle stazioni appaltanti, che a loro volta potranno trasferire i fondi alle imprese.

Il pagamento alle imprese, tuttavia, non dovrà essere condizionato all’accesso al fondo dedicato, come precisato nella circolare ministeriale in data 9.3.2022, con la quale le più rilevanti stazioni appaltanti pubbliche (Rete Ferroviaria Italiana, ANAS, Autorità di sistema portuale, Provveditorati alle opere pubbliche, ecc.) sono state invitate a procedere ai pagamenti alle imprese senza che i tempi di trasferimento dal Fondo dedicato debbano “condizionare o far posticipare i pagamenti che le medesime stazioni appaltanti sono tenute ad effettuare il più tempestivamente possibile utilizzando, ove esistenti, le risorse proprie, anche qualora detti pagamenti siano idonei a soddisfare soltanto in parte le domande degli operatori economici”.

Avvenuta la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale, le Stazioni Appaltanti, in tempi brevi (i.e. 45 giorni), dovranno presentare domanda di accesso al fondo per l’adeguamento dei prezzi, con conseguente attivazione della procedura per erogazione degli anticipi e dei saldi alle medesime, per il successivo versamento alle imprese.

È legittimo il controllo c.d. difensivo del datore di lavoro sulle strutture informatiche aziendali in uso al lavoratore, a condizione che esso sia occasionato dalla necessità indifferibile di accertare lo stato dei fatti a fronte del sospetto di un comportamento illecito e che detto controllo prescinda dalla pura e semplice sorveglianza sull’esecuzione della prestazione lavorativa essendo, invece, diretto ad accertare la perpetrazione di eventuali comportamenti illeciti” (Corte di Cassazione civile, Sezione Lavoro, Sentenza n. 25732/2021) .

La Corte ha, sul punto, evidenziato che il controllo sulle strutture informatiche aziendali in uso al lavoratore è ammissibile solo dove il controllo riguardi dati acquisiti successivamente all’insorgere del sospetto nei confronti del lavoratore e precisato che il controllo ex post non può riferirsi all’esame ed all’analisi di informazioni acquisite, in violazione delle prescrizioni di cui all’art. 4 Statuto dei lavoratori, prima dell’insorgere del “fondato sospetto”.

Nel caso di specie nella cartella di download del disco fisso di una lavoratrice era presente un file scaricato che aveva propagato un virus che, partito dal computer aziendale in uso alla lavoratrice, aveva iniziato a propagarsi nella rete aziendale, criptando i files all’interno di vari dischi di rete.

La Corte ha evidenziato che per confermare la legittimità del controllo operato dal datore di lavoro occorreva dimostrare che il sospetto della condotta illecita della dipendente (che aveva navigato su internet in orario di lavoro su siti non consentiti) fosse sorto antecedentemente al ritrovamento del file.

Con la sentenza n. 15118 del 2021 la Corte di Cassazione è ritornata sui propri passi rispetto ad altro proprio recentissimo precedente (la sentenza n. 15401 del 2020), pronunciandosi a favore di una definizione più ristretta della nozione di licenziamento collettivo.

Il tema ha rilevanza ai fini della delimitazione del campo di applicazione della normativa prevista per tale particolare tipologia di licenziamenti la quale prevede una serie di oneri procedurali e garanzie per i lavoratori idonei ad incidere in maniera significativa sulle scelte imprenditoriali del datore di lavoro.

Fra tali oneri e garanzie, l’obbligo di comunicare alle rappresentanze sindacali aziendali e alle associazioni di categoria la propria intenzione di effettuare i licenziamenti, l’obbligo di attenersi a determinati criteri nella scelta dei lavoratori da licenziare, nonché, il diritto di precedenza del lavoratore nella riassunzione presso la medesima azienda entro 6 mesi dal licenziamento.

In sintesi, la sentenza in esame ha affermato che l’art. 24 L. n. 223/1991, secondo il quale la disciplina in materia di licenziamento collettivo si applica ad imprese “che, in conseguenza di una riduzione o trasformazione di attività o di lavoro, intendano effettuare almeno cinque licenziamenti, nell’arco di centoventi giorni” vada interpretata come facente riferimento soltanto a “chiare manifestazioni della volontà di recesso da parte del datore di lavoro”.

Se, con la precedente sentenza n. 15401/2020, la Corte di Cassazione aveva incluso nel novero dei “licenziamenti” da computare ai fini del superamento della soglia che fa scattare l’obbligo di avviare una procedura di licenziamento collettivo, anche quegli atti che vengono comunemente definiti “licenziamenti indiretti” (fra i quali,  i casi di risoluzione consensuale o dimissioni volontarie del lavoratore a fronte di una modifica sostanziale e svantaggiosa delle condizioni di lavoro disposta unilateralmente dal datore di lavoro), con la pronuncia in esame la medesima Corte è quindi tornata ad una definizione del concetto di licenziamento collettivo più restrittiva tesa ad attribuire rilevanza ai soli casi di veri e propri licenziamenti, ovvero, ad ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di manifestazione della volontà unilaterale di recesso da pare datore di lavoro.

Resta da verificare se tale ritorno al precedente orientamento della giurisprudenza rimarrà costante ovvero se le ragioni di adeguamento al diritto dell’Unione europea che hanno determinato l’interpretazione più estensiva dello stesso Giudice di legittimità di cui si è detto, torneranno nella giurisprudenza della Cassazione o in quella di merito nuovamente a prevalere.

Con la sentenza 29 marzo 2022, n. 10050, la Suprema Corte ha stabilito che, nell’ipotesi in cui la paziente faccia valere la responsabilità del medico e della struttura sanitaria per i danni derivatigli da un intervento che si assume svolto in spregio alle leges artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella specie, la perdita del concepito); è, invece, onere dei convenuti, ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile.

In altri termini, una volta emerso e provato, sul piano presuntivo, il nesso causale tra l’intervento sanitario e l’evento dannoso, non spetta alla paziente (che ha debitamente allegato l’errore del medico, asseritamente consistente nell’indebita effettuazione di tre consecutivi prelievi di liquido amniotico, in contrasto con le indicazioni provenienti dalla letteratura medica) dimostrare tale circostanza, concretante l’inesatto adempimento della obbligazione professionale, ma spetta al professionista e alla struttura sanitaria dimostrare l’esatto adempimento, provando, in ossequio al parametro della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, di avere eseguito l’amniocentesi in modo corretto, attenendosi, anche in relazione al numero dei prelievi effettuati, alle regole tecniche proprie della professione esercitata.

L’art. 4 del D.L. 24.4.2017, n. 50 definisce contratto di locazione breve il contratto di locazione di immobile a uso abitativo, di durata non superiore a 30 giorni, stipulato da persone fisiche, al di fuori dell’esercizio di attività d’impresa. Alla predetta tipologia contrattuale sono equiparati i contratti di sublocazione e quelli di concessione in godimento a terzi a titolo oneroso da parte del comodatario.

Con provvedimento in data 17.3.2022 l’Agenzia delle Entrate ha modificato il precedente provvedimento del Direttore dell’Agenzia n. prot. 132395 in data 12.7.2017, emanato in attuazione dell’articolo 4, comma 6, del D.L. 24.4.2017, n. 50, che ha definito le modalità con le quali i soggetti che esercitano attività di intermediazione immobiliare, nonché quelli che gestiscono portali telematici, devono trasmettere i dati relativi ai contratti di locazione breve.

Con il recente provvedimento l’Agenzia delle Entrate prevede che la comunicazione prescritta con il provvedimento del 2017 sopra richiamato sia integrata con ulteriori due informazioni: (i) l’anno di riferimento della locazione; (ii) i dati catastali dell’immobile locato.

L’indicazione dei dati catastali, facoltativa in fase di prima applicazione, sarà obbligatoria a decorrere dalle comunicazioni relative ai dati riferiti all’anno 2023.

La comunicazione deve essere effettuata tramite i servizi telematici dell’Agenzia delle Entrate.

L’Agenzia delle Entrate precisa che il provvedimento ha lo scopo di poter meglio individuare gli elementi del contratto di locazione breve, avuto particolare riguardo al periodo durante il quale l’immobile risulta locato ed alla identificazione dell’immobile in presenza di più contratti relativi allo stesso soggetto locatore.