Con la sentenza 29 marzo 2022, n. 10050, la Suprema Corte ha stabilito che, nell’ipotesi in cui la paziente faccia valere la responsabilità del medico e della struttura sanitaria per i danni derivatigli da un intervento che si assume svolto in spregio alle leges artis, l’attore è tenuto a provare, anche attraverso presunzioni, il nesso di causalità materiale intercorrente tra la condotta del medico e l’evento dannoso, consistente nella lesione della salute e nelle altre lesioni ad essa connesse (nella specie, la perdita del concepito); è, invece, onere dei convenuti, ove il predetto nesso di causalità materiale sia stato dimostrato, provare o di avere eseguito la prestazione con la diligenza, la prudenza e la perizia richieste nel caso concreto, o che l’inadempimento (ovvero l’adempimento inesatto) è dipeso dall’impossibilità di eseguirla esattamente per causa ad essi non imputabile.
In altri termini, una volta emerso e provato, sul piano presuntivo, il nesso causale tra l’intervento sanitario e l’evento dannoso, non spetta alla paziente (che ha debitamente allegato l’errore del medico, asseritamente consistente nell’indebita effettuazione di tre consecutivi prelievi di liquido amniotico, in contrasto con le indicazioni provenienti dalla letteratura medica) dimostrare tale circostanza, concretante l’inesatto adempimento della obbligazione professionale, ma spetta al professionista e alla struttura sanitaria dimostrare l’esatto adempimento, provando, in ossequio al parametro della diligenza qualificata di cui all’art. 1176 c.c., comma 2, di avere eseguito l’amniocentesi in modo corretto, attenendosi, anche in relazione al numero dei prelievi effettuati, alle regole tecniche proprie della professione esercitata.